JAYAT KHALIST. Letture femministe di Biancamaria Scarcia Amoretti, DWF (131) 2021, 3

Editoriale

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Jayat khalist: hai lasciato un vuoto. Con queste parole in persiano Leila Karami racconta la perdita di Biancamaria Scarcia Amoretti, sua amica e maestra. Per chi ha conosciuto Biancamaria e letto i suoi testi, abbiamo voluto ricordarla con parole, “vive”.

Per chi la scoprirà, siamo certe che sarà utile per indagare e comprendere il presente.

Questo numero di DWF si sviluppa sull’onda di legami di pensiero e ricordi attraverso i dialoghi delle autrici con gli scritti di Biancamaria Scarcia Amoretti (1938-2020) apparsi su DWF dal 1976 al 1987.

In un ambito fino allora quasi prettamente maschile, Biancamaria è stata la prima docente donna di studi islamici all’Orientale di Napoli e poi ordinario e emerita alla Sapienza di Roma. La sua capacità di pensiero critico e l’originalità delle sue ricerche l’hanno resa un riferimento indiscusso del suo campo disciplinare. Da un altro punto di vista, la fitta rete di relazioni che la circondavano, la sua capacità di stare in dialogo e di formulare sempre una domanda pungente, che scombussolava l’interlocutrice/interlocutore, l’hanno resa per molte compagne uno stimolo e per le sue allieve (e allievi) un’indiscussa maestra.

Grazie all’ingresso nella redazione di DWF, avvenuto fin dagli esordi della rivista nel 1976, ha caratterizzato, e a nostro avviso completato e arricchito, le sue ricerche pioneristiche con uno sguardo femminista, imponendo la necessità di porre attenzione al rapporto delle donne con l’Islam. Siamo convinte che questo numero possa contribuire alla diffusione dell’originalità e preziosità del suo pensiero di Biancamaria e soprattutto a di quella parte del lavoro intenzionalmente influenzata dalle relazioni significative con altre donne oltre che dal confronto in redazione.

Questo numero nasce dal desiderio condiviso con Leila Karami, Layla Mustapha Ammar e Stefania Vulterini di ricordare Biancamaria mettendoci in ascolto e interrogando i suoi testi. Per farlo abbiamo coinvolto le sue allieve, amiche, lettrici, e chi l’ha scoperta recentemente. A seconda delle competenze, degli ambiti di ricerca e delle relazioni di ognuna abbiamo domandato loro di proporre una rilettura dei suoi articoli pubblicati su DWF.

Ad aprire sono alcuni flashback (Cacioli e Masi) di Biancamaria in redazione. In particolare, di un momento cruciale nella vita di Dwf ovvero del suo passaggio da rivista di studiose di donne a strumento prettamente politico, impegnato attivamente nel femminismo romano. Sono gli anni che vanno dalla metà degli anni Ottanta fino alla fine del decennio successivo. Le riletture presentate procedono in ordine cronologico. Alcune sottolineano la sconcertante attualità del pensiero di Biancamaria, le cui considerazioni sul ruolo politico delle donne nei movimenti rivoluzionari in Palestina sono ancora fondamentali per leggere la realtà dei movimenti femministi e queer oggi (Stagni). Lo stesso vale per quelli che affrontano la questione del posizionamento, in quanto ricercatrici occidentali, negli studi sull’Islam e in generale nei confronti di coloro che sono considerate “altre” (Fiorletta).

Tutti gli interventi fanno propria la pratica femminista del partire da sé, instaurando un dialogo ideale con il partire da sé di Biancamaria, che in tempi non sospetti proponeva di decolonizzare la disciplina avviando un profondo lavoro di riflessività (Panighel). La ricchezza del suo pensiero emerge anche da contributi, considerati marginali, che affrontano il ruolo delle donne nel cinema iraniano (Filippini).

Sono le “allieve” di Biancamaria a proporre un tributo appassionato, raccontando la loro relazione con la “maestra. Una percorso, scrivono, che “ha consentito di mantenersi autentiche nello studio e nella ricerca” (Ammar), o permesso con la condivisione di viaggi, sia con la mente sia col corpo, di acquisire un approccio curioso e “di genere” alla conoscenza dell’Islam (Karami).
Sul solco di una narrazione anche critica e conflittuale s’innesta la riflessione conclusiva di Pepicelli sul rapporto fra generazioni nel mondo degli studi sulle donne e sull’Islam contemporaneo e più in generale, fra genealogie femministe.

Infine, una bibliografica ragionata (Karami) ripropone i testi più significativi di Biancamaria in tema di donne e Islam, che può essere utile a tutte coloro
che continueranno a trovare nel suo pensiero una risorsa. Questo numero è allo stesso tempo un atto di gratitudine, un rituale di memoria, un tributo al pensiero di una donna senza precedenti, un filo rosso tracciato fra generazioni di studiose e femministe.

(gb, pc)

Indice

MATERIA

FLASHBACK. Biancamaria in redazione
Biancamaria Scarcia, è tra le poche compagne che sono state in DWF dai suoi primi numeri, dal 1976 fino alla fine del secolo scorso. Le ragioni della sua adesione non le conosciamo. Di certo il fatto che DWF, nata dal desiderio di Tilde Capomazza e Annarita Buttafuoco di mettere a disposizione uno strumento per quelle donne che sulla propria appartenenza di genere pensavano fosse giunto il momento di produrre e condividere studi e pensieri, deve averla molto affascinata. Biancamaria già nei primi anni Settanta aveva acquisito una consapevolezza istintiva del valore delle donne. D’altra parte, lo stesso doveva essere accaduto riguardo al proprio valore se si considera che già allora occupava un posto considerevole nell’accademia italiana in una disciplina presidiata da uomini. Ma soprattutto aveva la certezza del contributo originale che le donne potevano dare a tutti quei tentativi di comprendere le culture che da migliaia anni hanno attraversato l’Oriente e, a partire sé, anche l’Occidente. Erano proprio questa velocità di pensiero e una estensione ampia di conoscenza, la cifra che la contraddistingueva. Anche il restare in redazione dopo la decisione, era il 1986, di Annarita Buttafuoco di coinvolgere nella conduzione della rivista alcune donne attive nei gruppi femministi, per poter dare alla rivista un orizzonte molto più lungo e un ruolo più politico, segnala quanto le sfide le piacessero. Non va dimenticato che eravamo alla fine di un decennio di lotte, che ha trasformato l’Italia in un paese più laico grazie a leggi di forte impatto sociale come quelle sul nuovo diritto di famiglia, sull’interruzione volontaria della gravidanza, sul contrasto alla violenza di qualsiasi natura contro le donne, trasformandola da reato contro la morale a reato contro la persona. Ma soprattutto sono stati anni in cui molte donne hanno iniziato a combattere l’egemonia della prospettiva maschile. Quando DWF riparte con il nuovo progetto politico e culturale, il movimento delle donne era in una fase cruciale per la sua stessa esistenza: da un paio di anni si discuteva delle proposte politiche espresse in un numero della rivista Sottosopra, “Più donne che uomini”, il femminismo iniziava a mostrarsi e ad essere più presente nella vita istituzionale e nelle Università, la Prima Repubblica scricchiolava, gli equilibri politici tra i paesi occidentali nati dopo la Seconda guerra mondiale stavano per finire sepolti dalla caduta del muro di Berlino. Nel corso delle riunioni, lunghe ma assolutamente indimenticabili per la passione che circolava, per rifondare la rivista, le discussioni erano accesissime. Biancamaria faceva domande, spesso difficili, perché l’eterogeneità del nuovo gruppo redazionale, rispetto a quelli precedenti, poneva approcci e nuovi punti di vista sulle questioni in campo. Tutto questo generava disorientamenti e irritazioni, un po’ come accade oggi nella critica post-postcoloniale, seppure allora avveniva senza etichette. Ma ancor più sorprendenti e spiazzanti erano certe sue associazioni tra i nostri discorsi e alcuni aspetti della cultura islamica, come l’importanza della cura/pulizia della lingua (e non solo dei denti) o il senso della comunità rispetto alla terra di origine. Lo stesso possiamo dire in merito al suo agio nel muoversi tra mondi così diversi cogliendo fratture ma anche nodi che potevano essere sciolti per comprendere, riconoscersi non soltanto nella storia ma nell’attualità nonostante le tante differenze. Un’altra sua caratteristica era quella di raccontare con reticenza il suo eccezionale percorso professionale (le prestigiose pubblicazioni, l’ordinariato in una disciplina molto chiusa ed escludente) non come un’esperienza costellata da ostacoli e pregiudizi, che sicuramente avrà incontrato e combattuto, bensì l’esito ineluttabile di una ricerca di risposte a domande che si era posta fin da quando si era iscritta all’Orientale di Napoli per poi diventare una delle massime studiose della religione musulmana e dell’Islam politico. A dimostrarlo sono la sua produzione scientifica e divulgativa e la generazione di studiose e studiosi che ha formato. È stato impressionante alle celebrazioni che hanno seguito la sua morte osservare e ascoltare i tanti uomini che l’hanno ricordata e rimpianta chiamandola “la mia maestra”. Per noi allora giovani e digiune di quel mondo, rappresentava indubbiamente la “donna super-colta mitteleuropea” senza un’appartenenza che non fosse quella “a sé stessa”, che ci affascinava e incuriosiva. Ma di questo non sembrava accorgersene o almeno a noi non lo mostrava. La prima cena del nuovo gruppo redazionale fu proprio a casa sua. E anche questa fu un’occasione per comprendere sua eccezionalità, il suo essere al di là di qualunque stereotipo. Era una fine intellettuale e accademica che cucinava benissimo spaziando dall’Europa al medio Oriente preparando piatti raffinati e stupefacenti, aveva una cultura e frequentazioni assolutamente uniche grazie ai suoi studi e interessi e nello stesso tempo partecipava attivamente alle questioni legate alla gestione della rivista e più in generale della Cooperativa Utopia. La sua casa, piena di libri, splendidi, soprattutto arabi, e di oggetti provenienti dall’Islam, aveva nel contempo un’aria per noi vissuta e familiare forse per la presenza dei figli e dei loro amici e anche delle studenti e degli studenti che venivano a fare le ricerche nella incredibile biblioteca che occupava tutto il piano inferiore della abitazione. Durante quell’incontro conviviale insieme alla curiosità di assaggiare nuovi piatti e il gusto di scoprire sapori insoliti, avvenne una discussione importante introdotta proprio da Biancamaria. Il punto era questo: il rilancio di DWF come uno strumento politico del femminismo italiano era un vero e proprio cambiamento o solo la logica – prevedibile – prosecuzione degli intenti che l’avevano fatta nascere? La scelta/desiderio di Annarita Buttafuoco di aprire la redazione a femministe che facevano e pensavano la politica fuori dall'Accademia e fuori dalle università, era una “sterzata” politicamente rilevante rispetto alla strada fino allora percorsa? Le donne che si occupavano e promuovevano gli women‘s studies pur riconoscendo al femminismo un ruolo importante, non avevano mai ritenuto di doversi necessariamente impegnare anche nelle piazze e di cercare il dialogo con "tutte le donne". Pertanto la “chiamata” di Annarita, cosi nel nostro gergo di allora definivamo l’evento, rappresentava una svolta che avrebbe segnato “un prima” e “un dopo” nella storia di DWF e, in generale, nel lavoro e nelle pratiche politiche di donne conosciute e riconosciute nel femminismo romano e italiano? La discussione si fece accesa. Buona parte di noi cercò di dare una risposta, o di trovare una via di uscita a questioni che facevano riaffiorare i fantasmi che aleggiavano nel femminismo in quegli anni: siamo rivoluzionarie o non/ stiamo costruendo un nuovo mondo/ essere irriducibili è la strada giusta da percorrere/ vogliamo avere il potere o cambiare semplicemente i rapporti di forza tra i sessi/ per chi parliamo quando parliamo/ stiamo lottando per la liberazione o per l’emancipazione, seppure "aggiuntiva"/ … Lei incalzava, sempre più insistentemente. Non capimmo quella sera che l’importante era aver posto la domanda, come metodo, spunto di ricerca dentro di sé prima ancor che fuori, capacità di interrogarsi davanti a punti di svolta della storia e della vita. E forse non comprendemmo neppure che bisogna avere un metodo anche nello sfidarsi alla consapevolezza, alla precaria verità del proprio percorso politico. La storia di Biancamaria, alla stregua di quelle di tutte le pioniere, è stata non lineare. Potremmo narrarla come un percorso che parte dalla forza di rompere configurazioni culturali e stereotipi ancor più consolidati che in altri luoghi del sapere, ma anche della sua vita quotidiana, per arrivare alla rivoluzione nella disciplina, nella società, nelle piazze, nelle esistenze. Biancamaria aveva inoltre la capacità non molto diffusa di mescolare, ibridare, contaminare saperi, affetti e passioni. Cosi come ha fatto raccontando su DWF la sua storia, le esperienze dirette, le sue elaborazioni, i suoi pensieri. Si tratta di un tratto che emerge prepotentemente dalle riletture dei suoi scritti, che risultano ancora attuali, partono da dentro la disciplina universitaria per denunciarne le mancanze, arrivano al posizionamento di sé, alla definizione di un metodo, di una prospettiva in cui far consolidare positivamente il proprio essere una donna, una femminista, una docente, una islamista e una maestra.
[Assunzione politica del ruolo privato, in DONNA E RICERCA SCIENTIFICA, Nuova DWF (1) 1976]
È addirittura un luogo comune sottolineare l'incidenza delle guerre di liberazione nazionale e delle guerre di popolo di lunga durata sulle strutture sociali e sui modi comportamentali dei protagonisti di quest'esperienza. Il tema della liberazione della donna rientra nella problematica, ma per la stragrande maggioranza degli studiosi del fenomeno in essa anche si esaurisce. Gli storici segnalano l'eventuale partecipazione femminile alle azioni di grande rilievo, o enumerano una certa serie di “fatti eroici” compiuti da donne, pressoché paradigmatici, per completare il quadro che vede l'uomo al centro dell'attività rivoluzionaria. Per i sociologi e gli antropologi l'attenzione verte principalmente sul contrasto passato-presente, dove il passato viene individuato attraverso uno schema anch'esso in larga misura paradigmatico, e il presente è un'opposizione più o meno radicale alla situazione precedente . Che cosa si deve intendere qui per paradigmatico? Nonostante l'insistenza della moderna storiografia — che è possibile generalizzare, al di là delle singole ideologie che ispirano le varie scuole — sulla necessità di cogliere un qualunque fatto o fenomeno nel suo ambito specifico, all'interno della sua tradizione culturale, e nelle sue particolari connessioni con una data struttura socio-economica, quando si affronta il tema femminile sembra inevitabile ricorrere a un modello imperniato su alcuni elementi che sono indubbiamente comuni alla maggioranza delle civiltà, e delle realtà storiche prese in esame, ma che altrettanto indubbiamente hanno un significato, una rilevanza, e direi una “gravità” diversa in seno ad ognuna. Facciamo un esempio. L'autoritarismo in ambito familiare, e quindi sociale e politico, di cui la donna è sempre stata vittima, è sicuramente uno di questi elementi comuni, ma sembra alquanto semplicistico commisurare in rapporto a questo elemento, alla stessa stregua, Io svincolo della donna palestinese o della donna vietnamita, e ancora, operare in entrambi i casi, solo approssimative distinzioni tra ambiente rurale e urbano. Analogamente è paradigmatica l'accentuazione, pure spesso fatta, del ruolo femminile in situazioni “straordinarie”, proprio perché segue uno schema riduttivo che delinea una figura di “eroina ricalcato su un'idea aprioristica di eroismo e, soprattutto, legato convenzionalmente a una tipologia dell'eroe, per tradizione maschile. Va però subito precisato che questo discorso potrebbe portare, soprattutto in termini metodologici, a una formulazione schematica del problema, come si suol dire “femminista” nel senso restrittivo della parola; formulazione, cioè, centrata piuttosto su una contrapposizione uomo/donna che non su un tentativo di inglobare l'uno e l'altra in una visione storica che, nella prospettiva di correggere il modo abituale di fare storia, che è poi “storia dell'uomo”, individui vie nuove da percorrere e affronti tematiche apparentemente depositate con finalità diverse. Questo il nucleo dell'indispensabile osservazione preliminare al tema che ci siamo proposte. Infatti l'analisi del ruolo della donna e delle modificazioni spesso sostanziali che questo subisce nel corso di una guerra di liberazione si articola diversamente a seconda delle esigenze cui deve rispondere, e dell'interlocutore cui essa si rivolge. Il che significa che ci si trova di fronte a materiali estremamente diversificati, il cui valore e la cui funzione vanno stabiliti con criteri volti a cogliere l'aderenza del linguaggio e del paradigma adottati agli scopi prefissi, in modo particolare; e, più in generale, al contributo effettivo che rappresentano per il superamento di quella visione unilaterale della storia cui si accennava. Diverse le esigenze di un'avanguardia o di una dirigenza politica nel prefigurare il peso che la donna deve avere in una società nuova, per ottenere la quale analizza e divulga un certo ruolo femminile nell'attualità del processo rivoluzionario; diversa la prospettiva di chi, da osservatore sia pure partecipe, di tale processo voglia descrivere le motivazioni e le forme. Che diversi quindi debbano anche essere criteri e utilizzazioni nei confronti dei materiali critici che vogliono, in positivo o in negativo, comunicare un messaggio e un'esperienza, in certa misura estranei alla realtà dello storico o dell'antropologo che indaga, da quelli definibili come documenti, presentati dall'interno e per lo più funzionali a un dato sviluppo del messaggio e dell'esperienza in questione, può parere ovvio. Ma non lo è, e non solo nel caso della donna. Un'assunzione di tematiche extraeuropee da parte della nostra cultura, snaturate nella loro essenza e nel loro significato autentico, in un modello di analisi precostituito al punto da determinare aprioristicamente giudizi e valutazioni delle tematiche sussunte, è stata, ed è, prerogativa di gran parte dell'atteggiamento culturale occidentale — il cosiddetto eurocentrismo — che, nel corso dei secoli, è andato, direi naturalmente, a sfociare in quella componente di sopraffazione e di violenza ideologica che è propria e tipica del colonialismo. Se è vero nei confronti del terzo mondo, pur senza che si voglia con ciò creare un'arbitraria e troppo frettolosa analogia, lo è anche per la questione femminile, nella misura in cui la nostra cultura non si è fatta carico di una lettura della storia dal punto di vista della donna e funzionalmente al ruolo femminile nella storia stessa. Se già fossimo arrivati all'auspicata visione globale, il fatto potrebbe sembrare meramente polemico e pretestuoso. In verità sembra un passaggio obbligato, dialetticamente necessario (anche se diversamente postulato nelle varie ideologie che si propongono una trasformazione della realtà attuale) per costituire una qualche forma di plausibile integrazione culturale. Parlando poi del ruolo della donna nei paesi in via di sviluppo, e più specificamente, in un processo rivoluzionario terzomondista, le difficoltà vengono ad assommarsi, per cui all'esotico si unisce l'unilateralità dell'angolo visuale (accettato forse, più che prescelto). Laddove poi, le contraddizioni sembrano ricomporsi, e cioè in un approccio socio-antropologico ai fatti, il quale pare fornire garanzie di obiettività grazie a un metodo che, pur nel rigore scientifico, prevede una qualche possibilità di inserzione del ricercatore nei confronti del materiale trattato, (un' “entrata”, se cosi si può dire), più livellanti si fanno le analisi, più difficili a cogliersi le mistificazioni, mentre all'oggetto studiato viene quasi automaticamente proposto un modulo per autodefinirsi che sembra soddisfacente nella misura in cui l'oggetto viene a mimetizzarsi e al limite a identificarsi con l'elaboratore del modulo stesso, riconosciuto superiore . Fatto, anche questo, tipico dei paesi sottosviluppati e tipico della donna, la quale, quando appartenga pure all'area del sottosviluppo, viene a trovarsi, persino come oggetto di studio, in una condizione di doppia inferiorità. È con questi presupposti che sembra a chi scrive di poter affrontare senza paternalismi, e, in una scelta al contempo progressiva e “di parte” (della donna) il tema della definizione del ruolo femminile e del suo significato politico nel contesto rivoluzionario creato dalla guerra di popolo, nel proposito di evitare anche però l'atteggiamento così lucidamente caratterizzato dalla Davin: «Women's work was invisible until some particular problem made it visible. But, generally speaking, outside observers tended to come up with evidence which confirmed them in their prejudices... or to concentrate on the exceptional because the ordinary and accepted did not seem interesting» Il nostro tema prescinde, data la peculiarità della guerra di popolo, dal più complesso problema del rapporto che intercorre tra posizione della donna e guerra, anche se taluni elementi potranno a prima vista sembrare paragonabili . Comunque, due punti, discriminanti in proposito, renderebbero improponibili gli eventuali parallelismi: il fatto, pregiudiziale, che si parte dal concetto di essere in presenza di un fenomeno nel suo insieme progressivo, e il fatto, storico, per cui il quadro delle guerre popolari e rivoluzionarie è stato, ed è, quello dei paesi colonizzati e sottosviluppati. La questione Palestina rientra in questa casistica, pur presentando una versione particolarmente complicata e complessa di ambedue i punti. Riferimenti obbligati sono in questo caso il Vietnam e l'Algeria, nonostante che la rivoluzione cinese abbia presentato, per quanto riguarda la donna, aspetti, entro certi limiti, similari . Tali riferimenti, peraltro, funzionano piuttosto per l'aspetto formale e descrittivo della questione che non per quello storico vero e proprio, sebbene potrebbero, poi, essere ripresi in considerazione nel momento di una valutazione politica globale del ruolo della donna all'interno una guerra di popolo. Un esempio formale. L'elemento più appariscente è senz'altro quello della donna che imbraccia il fucile e combatte “a fianco dell'uomo”. Diciamo subito che per quanto importante e “parificatore” esso sia, non sembra che tale elemento rappresenti l'essenza del contributo femminile, né il punto in base al quale misurare una effettiva parità, o ancor meno, la conquista di una funzione politica in seno a un processo rivoluzionario. Infatti si tratta di un adeguamento ad una figura prefissata — e in questo senso ci riallacciamo a quanto detto all'inizio — il cui significato è di grandissima rilevanza come detonatore interno, per dare agli uomini, in maniera tangibile, il metro dei mutamenti perseguiti, e alle donne un'immagine di sé che possa prevedere il totale superamento di condizionamenti antichi e di depositati complessi di inferiorità. Si aggiunga che il fatto non può non produrre una rivoluzione a livello individuale — cioè nel modo, per ciascuna donna, di porsi di fronte al suo problema esistenziale e alla sua identità — e che, specialmente in società tradizionali, l'esempio di singoli casi ha una risonanza diversa che non in società più mobili e progredite. Però, anche quando, come per il Vietnam, non si tratti di casi, ma di un fenomeno generalizzato e coordinato, l'assunzione di un ruolo politico da parte delle masse femminili va cercato altrove. Che una donna imbracci il fucile vuol dire che è emancipata, che viene considerata responsabile di se stessa, che non necessita di tutele familiari di nessun tipo, che la sua fisiologia non le viene rinfacciata come impedimento alle azioni, che il suo rapporto con l'uomo può anche essere di inequivocabile cameratismo, e che, quanto a tabù tradizionali, o essi vengono posti in seconda linea rispetto a uno stato di necessità, o è garantito alla donna il diritto di gestirli secondo le sue personali convinzioni in merito. Perfettamente coerente è quindi, da parte della dirigenza di un movimento rivoluzionario, sottolineare la positività della cosa — una conquista enorme — e segnalarla come modello per la comunità nel suo insieme. Coerente anche ciò che immediatamente ne consegue; cioè l'autorizzazione che ne viene alla dirigenza di poter parlare di unità nazionale, di spirito nazionale, di volontà rivoluzionaria in termini che esplicitamente coinvolgano anche le masse femminili. In questo senso appunto la situazione palestinese non presenta difformità sostanziali da quella vietnamita o algerina, se non per le specifiche condizioni in cui essa si colloca: mancanza di un territorio nazionale come luogo di lotta, e di converso, lotta per il ricupero di un territorio nazionale preliminare alla richiesta (e alla lotta necessaria per vederla soddisfatta) del diritto di autodeterminazione e di sovranità nazionale. Ciò comporta una particolare configurazione sociale (campi profughi, per es.) che impedisce di usare in senso proprio concetti di classe — borghesia nazionale, proletariato, ecc. — applicabili invece nel caso del Vietnam e in larga misura all'Algeria . ln altre parole, il fatto di imbracciare le armi è uno strumento di liberazione, ma non l'apice di un processo volto a ribaltare il ruolo della donna. In genere, sia gli storici sia la propaganda interna considerano la partecipazione della donna alla lotta armata un salto qualitativo di estrema importanza; ma in qualche modo preparato dall'iter che il femminismo ha percorso in questo secolo. È un iter che viene descritto seguendo la successione di alcune tappe le quali sono un po' le stesse ovunque: prime aggregazioni, prime partecipazioni politiche, richieste di legislazioni più' eque, ecc., le quali tappe presentano ovviamente nel caso della Palestina analogie precise con i movimenti femminili di tutto l'arco vicino e meridionale . Questo porta evidentemente a cogliere alcuni punti scontati e non i fermenti di un processo meno codificato, che, se pure con ritardi e a fatiche, non può non essere stato il vero artefice di una presa di coscienza rivoluzionaria da parte della donna palestinese. E non si consideri superfluo ribadire che non si tratta di adottare nei confronti di questi primi tentativi un atteggiamento demagogico o falsamente progressista, bensì si tratta di una volontà di ricercare motivazioni più persuasive che non si fermino alla superficie del problema. Il movimento femminista palestinese comincia dopo la prima guerra mondiale nelle grandi città, in seno alle grandi famiglie colte del paese. Si vuole soprattutto ottenere formalmente una qualche autonomia che, attraverso i consueti meccanismi di legge, equipari la donna palestinese a quella europea. Nonostante alcune figure di primo piano, la cosa non incide sulla stragrande maggioranza delle donne, e soprattutto delle donne contadine, spesso impegnate, se non altro in quanto mogli dei loro uomini, contro l'occupazione sionista. Si datano al '20 le prime prese di posizione ufficiale, e una Unione Donne Palestinesi nasce nel '21, mentre solo nel '29 a Gerusalemme se ne ha il primo Congresso con 300 partecipanti. La vera cronaca del contributo della donna in epoca mandataria non si identifica però soltanto con l'attività dell'Unione tanto che si registrano a latere, nel '30, alcune manifestazioni femminili di notevoli dimensioni contro la permissività inglese nei confronti delle organizzazioni terroristiche sioniste; nel '33 altre contro i cedimenti britannici al dilagare dell'immigrazione ebraica, e una partecipazione diffusa tra il '36 e il '39 che sono anni cruciali per tutto il movimento di resistenza palestinese, fino alla presa di posizione del '48 contro la spartizione, anno di cui data un primo tentativo di organizzazione clandestina. La cronologia indica che sono fattori esterni, di necessità, a sollecitare l'impegno femminile, e le notizie fornite non sono la storia del significato che questo impegno ha assolto nell'insieme del movimento femminile. È facile, per esempio, rintracciare il numero delle partecipanti, e a volte gli slogans pronunciati nelle varie manifestazioni, mentre è solo da accenni vaghi e imprecisi che si può risalire al nocciolo del problema che qui ci interessa. La carenza organizzativa e di una vera consapevolezza della possibilità di incidere, la funzione di appoggio, nelle campagne, alla lotta degli uomini in posizioni subordinate, e il carattere di élite che il movimento acquista invece nelle città, delineano principalmente il ritardo storico vissuto dal movimento palestinese nel suo complesso, e il condizionamento che la situazione determinatasi negli altri paesi arabi dopo la prima guerra mondiale (delusione delle aspirazioni nazionali arabe, divisioni arbitrarie del Crescente Fertile in favore delle grandi potenze, Francia e Gran Bretagna, presenze pesantemente conservatrici imposte in Egitto e in Iraq, ecc.) ha fatto subire anche alla Palestina, oggetto di quel particolare sistema di colonizzazione realizzato dal sionismo che si è concluso con l'espulsione della maggioranza della popolazione indigena dal paese. Abbiamo cioè i primi segni di un movimento nazionale che ha anche una componente femminile, o/e il “debutto” di un'organizzazione femminista elitaria, cittadina, di matrice europea e colta, non i materiali per una storia delle donne dell'epoca fuori sia dall'agiografia che da un paternalistico scetticismo. Nell'insieme, quindi, in questi decenni e fino agli anni '50, la donna palestinese non si trova in una situazione sostanzialmente diversa da quella della donna araba in generale. Negli anni '50 comincia una prima differenziazione tra le donne palestinesi, le quali si sono inserite, pur mantenendo uno spirito nazionale, nelle strutture dei paesi che le hanno ospitate e quelle — la maggioranza — costrette a vivere nei campi-profughi Ciononostante nella storiografia ufficiale la partecipazione femminile alla lotta nazionale ricalca il modello precedente. Trovandoci una fase di intensa elaborazione politica nel mondo arabo (nasserismo, baathismo, ecc.) sono i movimenti e i partiti politici organizzati a richiamare tra le loro file le donne pronte a un ruolo pubblico. La loro più o meno riuscita inserzione non significa certo l'impegno dei movimenti in cui militano ad affrontare in termini concreti la questione femminile, e neanche a creare un contatto organico e finalizzato con le masse contadine e dei campi. Il fatto che si registri una presenza femminile in alcuni avvenimenti storici è quindi di per sé indicativo soltanto del permanere di una élite coinvolta nei grandi problemi dell'epoca, ma non un effettivo progresso nella presa di coscienza delle masse femminili. C'è un appiglio comunque a qualificare la presenza palestinese nel mondo arabo, e finalmente in un contesto di minore ufficialità. Si tratta della massiccia presenza di donne palestinesi nel corpo insegnante dei vari paesi arabi. È forse il primo dato che permette un'indicazione di massima circa le potenzialità esistenti all'interno della società palestinese, nel momento del suo apparente disgregarsi dopo il '48. Infatti proprio nell'ambito culturale, il quale è uno dei settori di più rigido monopolio maschile, anche nei paesi che teorizzano come strumento del loro sviluppo l'educazione femminile, si registra una discriminazione meno generalizzata che altrove. È però solo a partire dal '65 che si può parlare di un rapporto organico tra organizzazioni femminili e resistenza palestinese. Fin dal '63 si era avuta una riformulazione vecchia «Unione» trasformata in «Unione Generale delle Donne Palestinesi» e, quando nel '65 essa entra nell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina come una delle sue strutture di base, assume il ruolo di rappresentanza delle donne palestinesi nelle varie istanze internazionali e si responsabilizza per le manifestazioni femminili nei vari paesi arabi dove la presenza palestinese è massiccia (settembre nero del '70 ad Amman, Primo Congresso Nazionale nel '74 a Beirut, ecc.) e nelle zone occupate (in particolare nella fascia di Gaza e nella zona di Nablus, Genin e Ramalla: basti pensare alla dimostrazione organizzata in occasione del discorso di Arafat all'ONU nel '74). I fatti si susseguono e la stampa palestinese mette accanto ai suoi martiri ed eroi le sue eroine e le sue vittime. Le prigioni israeliane rigurgitano di donne; a rappresentare la resistenza di Tell Zaatar, per esempio in Italia, è chiamata una giovane combattente. In pratica se pure la donna palestinese continua a subire i ritardi storici cui l'hanno costretta la cultura tradizionale e le vicende politiche del suo paese, il processo per una liberazione pare avviato e il cammino da seguire sembra delineato in stretta connessione con la presa di coscienza nazionale e rivoluzionaria del movimento palestinese nel suo complesso . Ma è proprio nel momento in cui il ruolo femminile sembra di nuovo sottostare a una codificazione, sia pure per dimostrare una funzione pubblica della donna, che sembrano indispensabili alcune altre osservazioni di fondo. È stato forse davvero valutato appieno il ruolo produttivo della donna in situazioni rivoluzionarie, ruolo produttivo che non si identifica se non parzialmente con la partecipazione diretta di quest'ultima alla lotta armata? Non è forse ciò che generalmente viene chiamato sfera privata, cioè vita quotidiana e attività ordinaria, in una situazione di eccezionalità, come quella di una guerra nazionale e rivoluzionaria, che acquista un'incidenza diversa e assurge a fatto pubblico? E non è forse in questa prospettiva soltanto che si può parlare di interrelazione tra movimento rivoluzionario e liberazione della donna, in quanto solo immettendo come primaria e cioè come politica la funzione privata, si può parlare di un processo che coinvolge come protagoniste tutte le masse femminili e fa apparire il ruolo femminile, diciamo pure tradizionale, alla ribalta della storia ? In una società che vive momenti di emergenza come fatto abituale, lo stesso concetto di produttività viene messo in discussione. Non è soltanto produttivo coltivare il riso nelle risaie sotto i bombardamenti, o continuare a cuocere il pane durante il settembre nero di Amman, è produttivo anche mantenere in funzione il sistema di organizzazione sociale. Questo comprende nella sua fascia pubblica l'amministrazione civile e il permanere di quelle istituzioni regolanti il vivere sociale, di cui non può fare a meno neanche e soprattutto una società coinvolta in una trasformazione radicale e in uno sforzo finalizzato a eliminare i fattori che a questa trasformazione si oppongono. Ma non si esaurisce nella sua fascia pubblica, al contrario, poggia e può sussistere solo se esistono le microcellule sociali, che possono, a seconda dei casi, risolversi in solidarietà e organizzazione familiare, di villaggio, di campo: solidarietà e organizzazione le quali, a loro volta, si sostanziano di quell'insieme di attività che convenzionalmente costituiscono il “privato” delle donne, la loro storia, che sembra non interferire mai con la storia, che segue ritmi e processi diversi dà quelli che regolano la vita pubblica, cioè la vita dell'uomo. In questo emergere dell'oscuro, del quotidiano, a funzione politica mi sembra che vada colto l'elemento nuovo, rivoluzionario, e che, soprattutto, se non solo in questo senso, sia valido affermare che esiste uno stretto rapporto tra liberazione della donna e guerra di popolo. Non tutto si esaurisce qui, perché il discorso mancherebbe del suo ultimo anello, se non si sollecitasse un ripensamento sull'insieme dell'assetto produttivo delle società moderne avanzate, non semplicemente in termini di sfruttamento capitalistico del lavoro femminile, ma in forma più globale che tenga appunto conto della potenzialità produttiva di quanto finora caratterizza la vita delle masse femminili (ovviamente non riducibile al solo lavoro casalingo) e che emblematicamente qui si è voluto esprimere con la frase senza dubbio approssimativa di «assunzione politica del ruolo privato della donna». Rimane ancora una considerazione da fare, più direttamente legata al nostro tema: cioè il grado di consapevolezza delle donne — evidentemente diverso nei vari casi — nel vivere da soggetto non solo la storia degli uomini, ma anche la loro storia con pieno diritto di considerarsi partecipi dell'impegno politico collettivo verso il progresso perché, plausibilmente, solo attraverso questa strada pare si possa giungere a evitare recessioni e ritorni della donna a situazioni di sottomissione e di oppressione, una volta che la guerra di liberazione si concluda o il processo rivoluzionario si stabilizzi e si esprima attraverso istituzioni, anche innovatrici, ma che alla luce dell'esperienza storica, non hanno risolto la questione femminile.
LE DONNE PALESTINESI DI IERI E DI OGGI FRA LOTTE DI LIBERAZIONE DECOLONIALI E FEMMINISTE. Rilettura di "L’assunzione politica del ruolo privato: la donna palestinese", 1976
L'autrice rilegge in una chiave contemporanea il contributo di Biancamaria Scarcia Amoretti "Assunzione politica del ruolo privato" pubblicato nel numero DONNA E RICERCA SCIENTIFICA, Nuova DWF (1) 1976. Il testo integrale del saggio autografo di Scarcia Amoretti è consultabile online, al titolo corrispondente in questo indice.
[Donna e Islam: note metodologiche introduttive, in DWF, Anno I, n. 3, 1976]
Il mondo occidentale, tra i molti pregiudizi che ha coltivato nei confronti dell'Islam, ha da sempre sentito come punto discriminante a suo favore, la diversità della posizione della donna nelle due culture: la nostra che garantirebbe alla donna prestigio e dignità, l'altra primitiva e barbara, perché - ma non solo per questo - la donna vi è considerata merce e schiava . Soltanto una lettura superficiale c soprattutto astorica di alcuni fenomeni esteriori - il velo, la poligamia possono indurre a formulare il problema in modo quanto mai semplici- stico e ricondurlo in linea di massima a una dualità, occidente/oriente, implicante una superiorità del primo sul secondo anche per quanto riguarda la questione femminile. Una visione più documentata dei fatti, ideologici e culturali, che devono essere alla base di un qualsiasi giudizio, mette in luce una tematica ben più complessa e difficilmente risolvibile in una serie di formule stereotipate. In pratica la realtà del mondo islamico va analizzata a diversi livelli, partendo, in primo luogo, dalle interrelazioni tra superstrato culturale - genericamente inteso come minimo comun denominatore di tutti gli aspetti della civiltà islamica ed espresso in termini che trascendono il puro fatto religioso per invadere tutti i campi del vivere sociale - e le varie istituzioni attraverso cui la società islamica si è articolata all’interno di una data struttura economica e politica, la quale, pur modificando nel tempo e a seconda delle varie aree geografiche toccate, ha comunque mantenuto una sua omogeneità formale. Fattori questi in larga misura tipici dell'Islam e che son possono essere sottovalutati. Però un esame più attento degli sviluppi storici non sarebbe ancora di per sé sufficiente a garantire un giudizio obiettivo nei confronti di una cultura diversa dalla nostra e neppure a permettere concretamente la fissazione in termini corretti degli estremi di una problematica vasta e articolata come quella che sottende la questione femminile. Infatti soltanto nel momento in cui, in seno alla cultura presa come metro di paragone, in modo più o meno esplicito, cioè la nostra, si sviluppa un embrione di verifica storica, che porta a demistificare la presunta libertà della donna occidentale e la fantomatica apertura della cultura europea nei confronti del problema femminile, possono crearsi quegli strumenti critici attraverso cui postulare il tema della condizione femminile in modo unitario, al di fuori di settorialismi e velleità. In questa prospettiva, il problema si pone come intimamente collegato alla necessità della comprensione della propria esperienza storica, e l'affrontarlo, in un contesto diverso dal proprio, significa riconoscervi piuttosto un’identità di matrice, e quindi una delle molteplici forme che hanno caratterizzato la posizione della donna in seno alle culture cosiddette superiori, che non una differenza qualitativa, assolutamente insostenibile, per lo meno a questo proposito. In alni termini, trattare qui di Islam non vuol dire evidenziare un nuovo problema o un problema diverso, ma contribuire a esplicitare aspetti meno ovvii, talvolta trascurati o affrontati in modo troppo sbrigativo dello stesso problema. Un primo elemento da sottolineare. L’Islam come il Cristianesimo è religione monoteistica, il che comporta (ma la cosa non è diversa in seno a tutte le grandi religioni tradizionali), una serie di effetti analoghi, se non uguali, nel condizionamento subito dalla donna. Il dio unico e personale ha sempre connotati maschili e privilegia evidentemente l'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, in quanto creatura più completa e perfetta che non sia la donna dipendente dall'uomo fin dal suo venire in essere, mediato attraverso il corpo di quest'ultimo. La versione antico-testamentaria è accettata da Islam e Cristianesimo senza sostanziali modifiche. Eventualmente se si volesse tracciare un ideale diagramma del livello di mascolinità delle due religioni, ci troveremmo a dover differenziare le manifestazioni che tale mascolinità denunciano, ma non certo a privilegiare, almeno nella formulazione teorica del dettato religioso, una fede sull'altra. Un clero maschile nel cristianesimo, da una parte, una legge canonica che sancisce il precetto coranico per cui « gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri...» , dall'altra. La stessa figura di Maria la cui eccezionalità sottolinea ma non modifica la struttura maschile del cristianesimo, ha un suo equivalente nell'Islam: una figura femminile identificata con la figlia di Muhammad, destinata a tramandare nell'Islam eterodosso, oltre al potere temporale, una certa quiddità religiosa e ultraterrena ai suoi discendenti maschi , e una ricorrenza di temi e credenze lunari femminili, volti a considerare in modo positivo il rapporto di fecondità che lega l'uomo alla terra e la creatura al suo creatore, vissuti a livello popolare e mitologico da tutto Islam . Un secondo elemento di analogia sta nel fatto che sia il Cristianesimo che L'Islam hanno rappresentato il passaggio da una religiosità di tipo arcaico o primitivo - mondo antico e giudaismo per l'uno, politeismo per l'altro - ad una forma superiore e indubbiamente progressiva, che ha modificato nella struttura l'ordine preesistente . Tale progresso, però, ha avuto talvolta come contropartita l'abbandono di alcuni comportamenti che hanno significato per la donna un senso di maggiore costrizione esteriore, presentandosi la nuova ideologia con un codice più vincolante e severo. Si tratta inoltre del processo di compenetrazione con culture autoctone, processo differenziato a seconda delle aree in cui avviene la sostituzione e del livello di civiltà raggiunto nella fase precedente la conversione alla nuova fede. Questa rappresenta per lo più culmine e lo sbocco della crisi di valori preesistenti. Nel caso specifico del monoteismo che viene a sostituire concezioni pagane la crisi significa il punto di partenza verso una visione moderna del mondo. Il che non esclude però che per esempio presso berberi Tuareg dove predomina una struttura di tipo matrilineare la donna abbia perso con l’Islam la sa libertà di movimento e sia stata esclusa da mondo degli uomini dove prima aveva accesso, così come è avvenuto presso alcune popolazioni turche d'Asia Centrale . Nella nostra cultura, poi, si assiste a correnti d'opinione che, in certi momenti storici in cui è necessario il confronto critico con il dato religioso, considerano il passaggio al monoteismo come la perdita da un qualche cosa di naturale e intuitivo, specie nel dominio del sesso e quindi come un fatto regressivo e irrimediabile. Ma mentre la reazione antireligiosa in Occidente tende, di regola, a mitizzare il mondo antico, nell’Islam il problema ha una caratterizzazione più contingente e strumentale. In genere, e fino ai giorni nostri, il mondo musulmano tende a sottolineare la «rivoluzionarietà» del portato del credo islamico rispetto alla situazione precedente e rispetto alla stessa civiltà cristiana, vista come innaturale, non sinceramente religiosa, e permeata di violenza. Un'eventuale presa di posizione negativa nel confronti dell’Islam e una conseguente mitizzazione dell'epoca preislamica ha sempre, alla base, l'esportazione europea di certi concetti nazionalistici, che danno logo a movimenti panturanici, panarabi, paniranici etc., i quali dovendo trovare una loro plausibilità storica, la riscontrano in una civiltà turca o persiana o araba, definita esclusivamente in termini di etnia, civiltà che sarebbe stata corrotta e soffocata dall'ecumenismo islamico e dal modello assoluto e universale da questo proposto. Più difficile quindi che in Occidente, è, in terra d’Islam, individuare come strumento positivo e garanzia di una più giusta interpretazione del processo subito nel corso dei secoli dalla donna un atteggiamento che noi chiameremmo «laico», in quanto esso non rappresenta automaticamente un più adeguato spirito storico . Al contrario, spesso, esso è indice, di una delle molte forme di acculturazione che i paesi musulmani hanno subito durante l'esperienza coloniale. Questa contraddizione di fondo tra la volontà di non rompere con la propria tradizione, e addirittura rivalutare come strumento di rivalsa nei confronti del colonizzatore, e l'effettivo esaurimento della funzione progressiva di tale tradizione crea forse il maggiore ostacolo a un autonomo sviluppo del mondo islamico, che si trova di fronte il suo ritardo storico e la necessità di accettare una civiltà tecnologica sorta, al di fuori anche se non in contrasto, con i principi ideologici che lo hanno fin qui caratterizzato. La questione femminile è, a questo riguardo, assolutamente paradigmatica, nella misura in cui fatto strutturale e livello ideologico sono inscindibili nel meccanismo che ha portato in forma oggettiva e attraverso un preciso codice etico-comportamentale alla posizione di inferiorità della donna. Sintetizziamo per sommi capi quello che l’Islam sancisce a proposito della donna. Progressivo se paragonato alla società araba preesistente, l’Islam riconosce la donna come soggetto religioso alla stessa stregua dell'uomo. Donna e uomo sono quindi teoricamente uguali davanti a Dio, pur non essendo l'uno di fronte all'altra . Comunque il riconoscimento religioso implica un equivalente riconoscimento giuridico, in quanto il dato religioso in Islam si traduce sempre in una norma sancita dalla legge canonica che stabilisce, nella sfera pubblica e in quella privata, il comportamento dell'individuo in quanto membro della comunità. Quindi, se la donna perde il suo ruolo economico, svolto nella società beduina preislamica - e a difesa del quale vanno poi in sostanza pratiche come l’ipotetico seppellimento delle neonate vive - come merce di scambio e portatrice di dote , acquista in compenso una personalità giuridica e uno status codificato fin nei minimi particolari. Il momento di transizione dalla civiltà beduina alla legge canonica islamica lascia un certo margine di intraprendenza alla donna . Si forma così la premessa che porterà a configurare i primi tempi dell'Islam come l'età dell'oro anche per quanto riguarda la condizione femminile: vedova e ricca mercantessa la prima moglie del profeta a cui egli rimane monogamicamente fedele fino alla di lei morte; politica e intrigante la moglie preferita da Muhammad, L'unica vergine da lui sposata, la quale guida - pur non da sola - una rivolta contro i successori del marito da lei considerati indegni usurpatori; autorità riconosciuta a tutte le donne del profeta nel trasmettere detti ed episodi della vita di lui che andranno a confluire nel grande mare magnum della tradizione e che saranno fonte sicura in fatto di diritto e documento storico indiscusso . Il Corano propone come modello di sviluppo per la comunità islamica un'economia basata essenzialmente sul commercio la quale tende a prediligere un ambiente urbano piuttosto che rurale. L'uomo musulmano tipico è quindi un cittadino e un mercante. La civiltà islamica si sviluppa secondo queste linee di tendenza, pur registrando difformità anche consistenti nell'ampio arco geografico che l'Islam ha abbracciato. Rimane comunque funzionante a livello ideologico la meccanica dei segni connessi alla figura ideale del buon musulmano per eccellenza. E’ perciò in contesto cittadino e in un'economia di mercato che però non giunge mai a trasformarsi in un'economia capitalistica vera e propria, che la questione femminile va inquadrata, e che va interpretato, in relazione al tipo di ideale sancito dall' Islam, il codice etico-comportamentale cui la donna è sottomessa . Nonostante nel mondo rurale la donna mantenga una funzione attiva e viva accanto all'uomo, lo schema cittadino è quello che viene a prevalere. La donna, bene di consumo e non più merce di scambio, tende a rappresentare un tipo di investimento volto a indicare una raggiunta posizione e un acquisito benessere economico. L'harem, in cui la donna viene relegata, e dunque uno strumento di mobilità sociale perché rappresenta, in larga misura, le credenziali che l'uomo può offrire al suo milieu a garanzia della possibilità o meno di ricoprire una data carica e un preciso grado nella gerarchia del potere. La codificazione di questo sistema di valori trova una sua conferma e una sua ufficialità nell'atteggiamento che la stessa corte califfale prende in proposito fin dal secondo secolo dell’Islam. Mode orientaleggianti - il velo per esempio è usanza indotta e non autentica del primitivo Islam - pervadono l'etichetta della dirigenza musulmana, e, salvo rare eccezioni, mentre la donna libera paga la sua condizione sociale con la reclusione e l'ignoranza, le etere e le cantanti destinate a rallegrare il cuore del califfo e dei suoi cortigiani - e quindi, per estensione, dei potenti e dei ricchi - vengono programmate secondo un piano culturale spesso raffinato ed esclusivo, ma il cui significato non prevarica certo il limite fissato dall'utilizzazione e dal profitto previsto per l'educazione data alla donna in questo contesto . Paradossalmente - e qui l'Islam si differenzia dall' Europa cristiana - è ancora il diritto canonico che presenta alla donna un'ancora di salvezza per riaffermare con i suoi diritti la sua stessa esistenza: L'uomo è tenuto a pagarle una dote che la garantisce dal rischio cui può sempre incorrere del ripudio, dote che insieme alla parte di eredità che le spetta dal patrimonio familiare costituisce un capitale di sua esclusiva proprietà che può amministrare senza tutore, e che viene considerato come la sua fonte di sussistenza in caso di ripudio o di vedovanza o ancora, essa ha il diritto di pretendere il divorzio in una serie - neppure troppo limitata - di casi previsti dalla legge. Il fatto poi che i meccanismi giuridici spesso si complichino per permettere all'uomo di trovare scappatoie legali, non inficia il principio secondo cui la legge canonica prevede almeno una parziale tutela della donna in quanto religiosamente pari all'uomo . In un certo senso più equivoche sono alcune nuove norme legislative dei paesi musulmani riguardanti il diritto di famiglia , che pur pretendendo di modernizzare lo spirito e di proteggere la donna, sanciscono ancor più ufficialmente quelle possibilità di aggirare l'ostacolo legale, cui Si accennava. In una società che non garantisce alla donna il diritto al lavoro e non offre quindi opportunità di indipendenza economica ad entrambi i coniugi, pretendere il beneplacito della prima moglie per legalizzare un secondo matrimonio del marito ha piuttosto il sapore di un' organizzata costrizione che non quello di un iniziale riconoscimento di parità tra i sessi . Date le premesse, è quanto mai ovvio che l'ideologia, o meglio i valori ideali del mondo islamico, intervengano a motivare il privilegio maschile e a persuadere la donna della positività del suo ruolo di creatura di seconda categoria, acquiescente e docile. D'altra parte un fenomeno così macroscopico in occidente come lo sfruttamento del lavoro domestico femminile in quasi tutti i ceti sociali, non trova analogo riscontro nell'oriente islamico. Senza voler qui affrontare il problema della schiavitù che non si pone alla stessa maniera per il maschio e la femmina (in quanto per esempio a quest'ultima viene riconosciuta, qualora generi un figlio al padrone, una serie di diritti che non hanno equivalenti nel caso dello schiavo), il problema della casalinga è meno universalizzato. Non si tratta soltanto di una maggiore primitività della società islamica. L'impianto della famiglia poligamica, l'obbligo legale che incombe al marito di fornire alla moglie, alla stessa stregua del cibo e dell'abito , una servitù adeguata al suo rango, la stessa segregazione che tra l'altro ha lo scopo di mantenere intatto il valore del bene acquisito, modificano, - e non certo per gli strati meno abbienti delle masse islamiche, nei confronti dei quali il discorso può essere più generalizzato e praticamente assimilato alla problematica occidentale, - la definizione stessa che si può dare della donna. L'educazione dei figli non le è candidata che nella prima infanzia, la stessa cura delle figlie, data la precocità in cui viene in genere celebrato il matrimonio, è quanto mai relativa, il peso dell'amministrazione della casa non è un impegno assoluto, e, in teoria, non fa parte dei doveri che le competono . Regina del focolare solo per imitazione europea, essere donna significa quindi in Islam essere compagna sessuale dell'uomo e madre. Ma anche essere madre non è elemento imprescindibile. Pur essendo ostile all'aborto o a pratiche anticoncezionali, la mentalità musulmana non vi attribuisce valore di peccato. Il significato del piacere sessuale, strumento di bene e non arma di perdizione, rappresenta - è la tesi degli stessi orientali - un motivo di felicità per la donna e fa sì che questa abbia meno elementi di rivendicazione e di rivalsa nei confronti dell'uomo. Anche qui il profeta rimane il prototipo della perfezione e il suo amore per le donne, ben lungi dall'essere considerato un segno di umanità inferiore, viene esaltato come il massimo grado di rispetto per la natura umana creata da Dio per il bene e il piacere. Il sesso, quindi, non riguarda solo l'uomo. Anzi, la donna, passivo strumento nelle mani del maschio, non è certo quella idealizzata dall'Islam . Comunque, anche in questo caso, in cui la mancanza di un complesso e un maggior realismo sembrerebbero dover favorire la donna almeno nella sfera della vita intima, il tutto si trasforma invece in un'ulteriore conferma della sua intrinseca interiorità. Certamente nulla di demoniaco nella donna desiderosa di piacere, e nulla di simile alla tradizione medievale europea che descrive come fatto turpe e abbietto la concupiscenza, caratteristica per eccellenza femminile. Il meccanismo di emarginazione è diverso. La sfera del sesso viene in qualche modo lasciata alla donna, come di sua pertinenza, mentre è per l'uomo un riempitivo, un'oasi di recupero, e non il luogo della sua massima realizzazione. E siccome nessuna valenza sociale viene attribuita al rapporto sessuale, la donna rientra, per definizione, in una categoria inferiore, inutile, debilitata, cui sembra d'altronde destinata dal suo stesso ciclo fisiologico . Questo a grandi linee il quadro generale. Naturalmente le singole Situazioni hanno presentato, in seno all'Islam, diversità considerevoli. Il caso dell'Islam indiano, inserito su una struttura di casta e su una particolare forma di estraneamento della donna dalla vita sociale, ha visto espressioni di sottomissione femminile particolarmente spasmodiche. Ma è in India che si sono date alcune clamorose eccezioni, e oggi è proprio il codice pakistano che accorda alla donna musulmana il massimo di libertà e di diritti, laddove, pure, l'intellighenzia pakistana pretende ancora di riconoscersi nell'ideologia tradizionale islamica . Il discorso necessiterebbe qui di una puntualizzazione che mettesse in evidenza quali particolarità «regionali» hanno caratterizzato nei vari paesi islamici la condizione femminile. La difficoltà di fondo è che il problema non è stato sufficientemente affrontato dalle dirette interessate, e molte delle indicazioni che si possono dare rimangono indicazioni di massima, legate ancora più a quanto di comune presenta il mondo musulmano, che non a quello che di peculiare le singole realtà storiche hanno prodotto . Il punto di partenza per differenziare l'analisi è ovviamente la reazione anticoloniale che i vari paesi hanno vissuto in modi anche molto contrastanti tra loro. L'Algeria attraverso la guerra di liberazione ha rappresentato il processo più accelerato di emancipazione femminile. L'Egitto, d'altronde, che più si è avvicinato nel secolo scorso a una possibilità di industrializzazione, è stato alla avanguardia di un femminismo borghese e di élite, di diretta dipendenza dai modelli europei che, come era prevedibile, non ha intaccato l'arretratezza delle masse femminili rurali o del sottoproletariato cittadino. Tuttora in formazione è la presa di coscienza da parte della donna palestinese, trovata in una particolare situazione storica e destinata, forse, a trasmettere al mondo arabo, il bagaglio dell'esperienza vietnamita, e a rivendicare attraverso una funzione politica oltre che sociale - consistente nella trasmissione di valori nazionali altrimenti perduti - il suo ruolo di protagonista. Certamente, dove non sono intervenuti fattori violenti di rottura con la tradizione, il ritardo della donna musulmana è indiscutibile, e non è persuasiva dimostrazione del contrario l'esistenza di forme rare fatte di acculturazione da parte di un'esigua minoranza di donne , alienate dalla loro stessa realtà storica e isolate dalle masse femminili del loro paese. Dove fatti essenziali di struttura, di scelte economiche e di alfabetizzazione, costituiscono il nucleo prioritario dei problemi da risolvere, il femminismo tipico della società dei consumi, all'interno della quale ha una sua innegabile motivazione, non può evidentemente avere un riscontro obiettivo. Quando i movimenti femminili arabi, che sono forse i più appariscenti nel mondo islamico, si presentano credibili è perché si incaricano di mediare tradizione c modernizzazione e assolvono al compito di divulgare alcune parole d'ordine che necessitano, per essere realizzate, anche dell'apporto e del consenso delle masse femminili. In altri termini, questo tipo di aggregazione femminile che ha conosciuto negli ultimi decenni un certo successo rientra appieno nella dinamica con cui si struttura il processo nazionalistico nel suo duplice aspetto, quello della ricerca di una identità culturale e quello di permettere ad una data classe, la borghesia nazionale, di emergere a posizioni di potere . Per quanto riguarda l'identità culturale è ancora l’Islam il punto di riferimento privilegiato, mentre a sostegno di una gestione borghese del potere vengono propugnati esperimenti di modernizzazione che toccano anche la questione femminile, nonostante spesso rimangono, più ancora che per altri problemi sociali, semplici prese di posizione teoriche a livello di sostituzione o di codice, e ben di rado si tramutino in una positiva volontà di rinnovamento. Infatti la rivalutazione di un'etica ispirata all'ideologia islamica e riforme più apparenti che di struttura condizionano ogni eventuale tentativo di radicale trasformazione dello status quo e di spregiudicata analisi dell'arretratezza della donna musulmana. Val la pena di concludere con le parole di una donna che documentano l’empasse in cui si trova ogni movimento femminista arabo e islamico, in forme più o meno accentuate. Le affermazioni qui riportate - siamo nel ?40- sono la conclusione o meglio l'appropriazione da parte della donna di un processo iniziato dai riformisti musulmani a partire dal secolo scorso, processo che rimane all'interno delle strutture che hanno operato il condizionamento femminile che pure si vuol denunciare. Nonostante sia chiarificatore l'applicare quel determinato sistema di analisi volto a ricercare i motivi di ritardo tecnologico del mondo musulmano anche alla questione femminile, si tratta pur sempre di una dipendenza culturale, che resta tale anche se è cosciente e forse voluta: «…il Corano non si limita a dare precetti religiosi con le sanzioni in essi implicite e riguardanti il mondo ultraterreno, molto spesso dà delle leggi indicandone i modi d'applicazione e misure restrittive puramente terrene. Visto il carattere sacro dei precetti religiosi, quando si tratta dell'aldilà questi restano e devono rimanere ammutati. Quanto alla loro applicazione giuridica sarebbe contraddittorio volerla conservare intatta, mentre è assolutamente intaccata da valori umani, per definizione variabili. D'altronde l'applicazione dei precetti religiosi può mutare in conformità ai bisogni della società senza, per questo, toccare la dignità sacra della religione…Il disaccordo tra il sacro e il profano è il punto che caratterizza la crisi della gioventù femminile all'inizio del XX secolo. La vera ragione di questa crisi sta nel fatto che, nell'applicare le leggi religiose, ci si rifaccia alla lettera e non allo spirito della religione. Ci si è soffermati su particolari senza risalire al senso più profondo della religione: di qui molte ingiustizie verso le donne…». Non siamo però, neanche a distanza di qualche decennio a un’alternativa che sia veramente tale. Un punto fermo, l'unico forse, che si possa individuare è il continuo aumento del numero di donne che lavorano all'interno delle varie istituzioni politiche e delle varie organizzazioni preposte alla vita dei singoli paesi. Non si tratta di un'attività senza condizionamenti e autonoma. È comunque un dato di fatto, e le realizzazioni, che ne conseguono, pur modeste, sono concrete e innegabili. La questione della donna musulmana, che pure spesso si sostiene essere al centro del dibattito politico di molti regimi, delle preoccupazioni dei loro legislatori e che si sostiene essere alla base dello spirito riformatore che li anima, è invece, nella relazione che corre tra peculiarità storica e connotato tipologico generale, ancora tutta da impostare . ? ALLEGATI Corano: esempi di versetti sulle donne. 1- sura XXX, 22 - «E Uno dei Suoi segni è che Egli vi ha create da Voi stessi delle spose, acciocché riposiate con loro e ha posto fra di voi compassione e amore». 2- sura IV, 34 - «Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disubbidienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti; poi battetele; ma se Vi ubbidiscono, allora non cercate pretesti per maltrattarle; ché Dio è grande e sublime». 3- sura XVI, 58-59 - «e quando si annuncia a un di loro una figlia se ne sta corrucciato nel volto, rabbioso. - E s’apparta dalla sua gente vergognoso della disgrazia annunciata, e rimugina tra sé, se ignominiosamente tenersela, o seppellirla viva nella terra. Malvagio giudizio il loro!». 4- sura IV, 19 - «o voi che credete! Non vi è lecito ereditare mogli contro la loro volontà, né impedire loro di rimaritarsi allo scopo di riprendervi parte di quello che avete loro dato, a meno che non abbiano commesso infamia provata; trattatele comunque con gentilezza ché, se le trattate con disprezzo, può darsi che voi disprezziate cosa in cui Dio ha posto un bene grande». 5- sura IV, 3 - «...sposate allora di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo sarà più atto a non farvi deviare». 6- sura IV, 35 - «E se temete una rottura tra marito e moglie, nominate un arbitro della parte di lui e uno della parte di lei, e se i due coniugi desiderano riconciliarsi Dio metterà armonia tra loro, poiché Dio è sapiente e di tutti ha notizia». 7- sura II, 229 - «Il ripudio v'è concesso due volte; poi dovete o ritenerla con gentilezza presso di voi, o rimandarla con dolcezza e non v'e lecito riprendervi nulla di quel che avete loro dato; a meno che ambedue non temano di non poter osservare le leggi di Dio, non sarà peccato se la moglie si riscatterà pagando una somma... Dunque se uno ripudia per la terza volta la moglie, essa non potrà più lecitamente tornare da lui se non sposa prima un altro marito...». 8- Sura XXIV, 31 - «E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d'un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano le nudità delle donne e non battano assieme i piedi sì da mostrare le loro bellezze nascoste; volgetevi tutti a Dio, o credenti, che possiate prosperare!». 9- Sura XXIV, 2-3 - «L'adultera e l'adultero siano puniti con cento colpi di frusta ciascuno, ne vi trattenga la compassione che provate per loro dall'eseguire la sentenza di Dio, se credete in Dio e nell'Ultimo Giorno; e un gruppo di credenti sia presente al castigo. - L'adultero non potrà sposare che l'adultera o una pagana; e l'adultera non potrà essere sposata che da un adultero o da un pagano: il connubio con loro è proibito ai credenti». 10- Il flusso mestruale I giuristi musulmani hanno considerato la donna che sta avendo le sue regole mensili, come affetta da temporanea infermità, e danno un nome tecnico all'inizio e alla fine di questa crisi. Le conseguenze legali di questa situazione provvisoria dell'organismo femminile sono due: 1) il flusso mestruale non fa scomparire né l'attitudine a sopportare il peso del dovere, né la capacità necessaria a eseguirlo. Solo alcune pratiche religiose fanno eccezione. 2) Ogni donna deve praticare, durante il periodo della mestruazione, un'abluzione al posto di ognuna delle cinque preghiere canoniche. Questo obbligo si basa su una tradizione di cui è impossibile controllare la trasmissione. Si tratta di Eva che, avendo avuto le sue regole, pregò Adamo di domandare all'angelo di Dio se ella potesse continuare a fare le sue preghiere. Le fu risposto che ne era esentata, ma che doveva fare al posto di queste una abluzione. Eva avrebbe concluso, che, per analogia, il comportamento poteva essere lo stesso per quanto riguardava il digiuno. Ma le fu indicato che ella doveva, una volta finito il periodo delle regole, adempiere allo stesso precetto per compensazione, Cioè doveva digiunare, dopo il mese di Ramadan, per tanti giorni quanti erano stati quelli in cui aveva sospeso questo dovere. Quindi la donna deve eseguire, dopo, il precetto del digiuno e della preghiera il cui adempimento è stato ritardato dalla sua infermità mensile, ma di cui la legge non la esonera in modo definitivo. 11- Esempio di commento al versetto: «Gli uomini sono preposti alle donne…». «Questo versetto è sceso per Sa'd al-Rabi' uno dei maggiorenti arabi, il quale aveva per moglie Habiba bint Zayd ibn abi Zuhayr. Entrambi erano Ansar (avevano cioè aiutato il profeta a Medina), ma lei aveva avuto un'insubordinazione grave nei confronti di lui fino a batterlo. Egli con il padre andò dal Profeta a lamentarsi: «lo ho trattato questa signora secondo il suo diritto; adesso mi ha picchiato sul viso». Il profeta rispose: «Bisogna che ti dica una cosa. L’angelo Gabriele ha portato questo versetto dicendo: noi vogliamo una cosa e Dio un'altra, ma quello che vuole Dio è meglio». Così si è stabilito quanto concerne il comportamento tra marito e moglie. In quanto al fatto che Dio ha scelto alcune creature sulle altre, questo non è altro che un fatto razionale nei confronti della piena potenza della fede e della religione. Infatti la donna è in difetto nei riguardi dell'intelletto e della religione, siccome alcuni giorni al mese non può pregare e non può digiunare. E per queste deficienze quando porta testimonianza, un uomo vale due donne e due donne un uomo. Questo sia nell'amministrare il danaro sia nel commercio, per non parlare della guerra santa che è fatto obbligo ai soli uomini e analogamente per la preghiera del venerdì... La migliore prova è che ad un uomo sono permesse quattro mogli, mentre a una donna un solo marito e il ripudio può venire solo dall'uomo. ...Lo stesso vale in questione di eredità e il prezzo del sangue di una donna è calcolato la metà di quello di un uomo... La profezia, l'imamato e il califfato (che sovraintendono al potere spirituale e temporale) sono di competenza maschile, perché Dio non ha inviato nessun profeta donna, e nessuna donna è stata califfo o imam... E il profeta ha detto: la donna migliore è quella che quando la guardi ti rallegri, e se le ordini qualche cosa, la trovi pronta ad ubbidire, e se tu ti allontani, preserva la sua intimità per te... Il matrimonio 12- Il matrimonio è una convenzione. È concluso per accordo di due volontà. La volontà dell'uomo rappresenta l'offerta, quella della donna l'accettazione. Differisce. tuttavia dalle altre convenzioni sociali perché è annullabile da una delle parti, l'uomo, senza che la donna possa opporvisi, I matrimoni formano la prima sud- divisione delle azioni che hanno il carattere di convenzione, tutte le altre convenzioni formano la seconda. 13- Il matrimonio fa parte della Sunna (tradizione) dei profeti. È meglio sposarsi che astenersene, per votarsi all'adorazione di Dio. Il profeta Muhammad rimproverò a Uthman ibn Ma'lsum il suo celibato: «O giovani, - disse - chi tra voi può avere un alloggio, prenda moglie. Il matrimonio è la condizione migliore per la castità dello sguardo e la disciplina dei sensi. Se non ci si può sposare, si dovrà praticare il digiuno. Vi si troverà aiuto». 14- L'uomo che desidera domandare una donna in moglie ha il diritto di guardarne le parti del corpo che le donne lasciano in genere vedere, come il viso, le mani e i piedi. 15- Per essere concluso ogni matrimonio presuppone: 1) L'offerta del tutore matrimoniale (padre, nonno paterno, figlio, nipote o bisnipote, il suo liberatore in caso di liberta, il parente più prossimo del clan, il capo di stato) o del suo rappresentante che dice: «Ti dò in matrimonio», oppure: «Ti dò per sposa». 2) L'accettazione del marito o del suo rappresentante che dice: «Accetto» o «Eccomi sposato». 16- II padre può sposare senza il loro consenso tutti i figli impuberi, maschi e femmine e le figlie ancora vergini. Gli è però raccomandato di domandare il consenso alle figlie puberi. Gli è interdetto di sposare senza consenso un figlio pubere o una figlia deflorata. …Il consenso della donna deflorata consiste in una dichiarazione esplicita, quello della vergine nel silenzio, in virtù del detto del Profeta: «La donna vedova o ripudiata ha più diritto su se stessa del suo tutore. Quanto alla vergine, le si domanderà il consenso e questo consiste nel suo silenzio». 17- L'uomo mantiene la moglie La provvigione fa parte dei diritti della moglie nei confronti del marito, quand'anche fosse ricca. E su questo tutti i dotti musulmani sono d'accordo, anche per l'esplicito riferimento che il Corano fa alla questione. L'Imam Ga'far ha detto in proposito: la donna ha il diritto di pretendere che il marito la nutra e la vesta; se viene trascurata, il marito è in difetto nei suoi confronti. Tutti sono d'accordo, a meno che non si tratti di un matrimonio a termine per cui, alla moglie, in questo caso, non è dovuto il mantenimento. Il punto sul quale le opinioni discordano riguarda il fatto se tale provvigione spetti alla donna in nome del contratto matrimoniale stipulato o se dipenda dal contratto e insieme dal dovere di ubbidienza verso il marito. Per esempio: se c'è contrasto tra i coniugi a proposito dell'ubbidienza, ma la donna dicesse; non mi rifiuto a te, sono ubbidiente e ho quindi diritto a essere mantenuta, e invece secondo l'uomo così non fosse e sostenesse che la moglie è stata disubbidiente e per questo il mantenimento non le fosse dovuto, devono ricorrere in giudizio. Se la provvigione Si ottiene in base al contratto, l'uomo è il ricorrente, a lui tocca provare quanto dice e la donna confutare dietro giuramento. Se la provvigione dipende dal contratto e dall'ubbidienza, allora tocca alla donna di essere la ricorrente e al marito la confutazione della prova. L'ideale femminile: Fatima, la figlia del profeta. 18- Sulla nascita di Fatima la pura, su di lei la salvezza di Dio. In verità Fatima è pia, martire, figlia di profeti, non tocca da impurità sessuale, cioè da mestruo. Quando nacque Fatima, Dio si ispirò a un angelo e le diede l'eloquenza della lingua di Muhammad e la chiamò Fatima. Poi disse: «T'ho colmata di intelletto e t'ho svuotata di impurità...». E in verità Dio l'ha colmata di intelletto e svuotata di impurità fin dal patto che Dio ha stretto con l’uomo nella Pre-eternità. Un giorno il profeta stava seduto con Alì quando entrò un angelo dai ventiquattro volti. Il profeta gli si rivolse dicendo «o mio caro Gabriele, non ti ho mai visto sotto questo aspetto». «Non sono Gabriele, o Muhammad. Dio mi ha inviato a che la luce si sposasse alla luce». «Chi sei?». «Sono Fatima, la sposa di Ali». Quando l'angelo si allontanò tra le spalle di Ali apparve il segno profetico, testimoniante il suo diritto alla successione. II profeta gli chiese: «Da quando c'è questo segno tra le tue spalle?». Rispose: da prima che Dio creasse Adamo 22 mila anni fa». ...Dio creò Ali per Fatima altrimenti non ci sarebbe stato in questo mondo e nell'altro nessuno suo pari. 19- Qui si tratta di una delle più grandi donne del mondo e poiché la donna è l'asse intorno cui ruota la vita e l’educazione, parte essenziale e causa della vita stessa dell'uomo, è indispensabile trattarne. Una donna per essere degna di essere chiamata tale deve essere casta, degna, beneducata, avere un'anima senza macchia, volontà di ferro, colta quanto si conviene. La donna è il più importante fattore di una vita umana onorata e svolge una grande funzione nella felicità umana… Fatima non faceva mai alcuna richiesta a suo marito nel timore che, Dio ne liberi, non fosse in grado di accontentarla e se ne dovesse vergognare. Anche negli ultimi mesi della sua vita, quando non si sentiva bene e poteva andare avanti soltanto con cure mediche, sopportava, e questo suo senso del pudore la faceva trattenere dall'esprimere i propri bisogni. Diceva che era suo padre che le aveva lasciato come sue ultime volontà l'impegno di non chiedere nulla al marito... Quando si chiese al profeta perché la posizione di Fatima dovesse essere considerata così alta, rispose che ciò era dovuto anzitutto al fatto che fosse erede delle virtù profetiche e poi, in secondo luogo, perché era destinata a trasmettere la stirpe del profeta stesso... Le fatiche della vita domestica e l'educazione dei figli, Fatima le aveva ripartite un giorno per uno con un'altra moglie di suo marito. A forza di girare la macina del mulino le mani le si erano fatte piene di calli ma lei preparava farina pensando a Dio e alla fame dei poveri tra i quali la distribuiva. Era senza pari nel sopportare fame e sete e anche nella dolcezza e nella pazienza... La libertà e l’educazione che servono alla donna. 20- è chiaro che il senso della libertà sta nell'indipendenza dell'uomo nei confronti di tutto quello che ha attinenza con il pensiero, la volontà e l'azione, nella misura in cui questo rientra nei limiti imposti dalla legge e dall'osservanza delle regole del vivere sociale. Quindi non si deve essere sottomessi in nulla, al di fuori di quanto si è detto, se non alla volontà di Dio. In situazioni eccezionali, come nel caso dei bambini, l'opinione dei competenti, circa il miglior tipo di educazione, sostiene che la costrizione è fatale per la crescita del bambino e essi convengono sul fatto che il bambino debba essere lasciato da solo in libertà, pur toccando ai genitori guidarlo e consigliarlo. Questo è il tipo di libertà su cui deve basarsi l'educazione delle nostre donne. Certo, oggigiorno, le donne non sono comprate e vendute nei mercati, c nessuno vuole sostenerlo. Ma non è schiavo solo l'uomo che diventi proprietà di un altro attraverso una transazione commerciale. Al contrario. Per essere liberi, bisogna possedere la facoltà di disporre del proprio pensiero, della propria volontà e dcl proprio agire. ...Gli antichi filosofi non hanno messo in conto tra i loro errori quelli circa il significato del termine libertà, cioè il fatto che credessero che Dio ha creato il genere umano secondo due categorie, una che si distingue in nome della libertà e l'altra condannata alla schiavitù... Ci sono discordanze sulla comprensione della natura femminile. Nessuno può affermare che la donna sia capace di azioni che prevedano il controllo della sua forza istintiva o che possano essere annoverate tra quelle attraverso cui si provvede ai bisogni e alle necessità della vita umana... Tutti sono d'accordo sul fatto che la donna regge le basi della famiglia, ma tutti interpretano male questo ruolo. Per i più significa che la donna serve il marito e bada ai figli se la famiglia è povera, dirige i servi addetti a compiere queste incombenze controllandoli, se la famiglia è ricca... ...Non ci sarebbe nulla di male nel velo, se non fosse che è incompatibile con la libertà umana, essendo diventato impossibile per una donna sottrarvisi in base alle norme imposte dalla legge canonica… 21- Si è detto che l'educazione non dà frutti e non raggiunge il suo scopo se non si comincia fin dalla fanciullezza, tra le braccia della madre, e ci domandiamo oggi se le nostre donne sono in grado di educare i nostri figli come noi auspichiamo. È passata l'epoca - e da tanto - in cui le donne venivano chiamate madri degli uomini. Potremmo noi oggi qualificarle con questa attribuzione? Assolutamente no. E non è colpa imputabile a loro... Gli strumenti a ciò necessari continuano a essere nelle mani degli uomini che li volgono dove e come vogliono. Per questo credo fermamente e senza dubbi che se vogliamo innalzare il livello della civiltà e del progresso, se vogliamo essere rispettati e spianare la via ai nostri figli in quest'epoca, non possiamo prescindere dall'educare le nostre ragazze fino a che non abbiano raggiunto il livello delle loro antenate dell'epoca dei primi musulmani... Penso che l'educazione delle ragazze debba procedere di pari passo con quella dei ragazzi se vogliamo che l'istruzione raggiunga lo scopo che ci siamo prefissi. Anzi dobbiamo aver chiaro che non possiamo attendere nulla se non uniformiamo il grado di Istruzione tra ragazzi e ragazze, perché se abbandoniamo metà del potenziale esistente per la nostra vita sociale e concentriamo la nostra sollecitudine soltanto sull'altra metà il risultato non sarà altro che dannoso. Se tra le nostre azioni prestabilite c'è quella di potenziare le capacità intellettuali di mezza nazione e di lasciare l'altra metà nelle tenebre dell'ignoranza e in uno stato di inferiorità, si ottiene che la parte colta si allontanerà da quella ignorante e si distaccherà da chi gli dovrebbe essere naturalmente compagna nella vita... ... Perciò è fatto assolutamente necessario educare le ragazze.... 22- L’uguaglianza tra i sessi, secondo un contemporaneo. Per quanto concerne le relazioni tra i sessi, l'Islam ha garantito alla donna una completa uguaglianza, pur tenendo conto del loro sesso. Non si è permessa quindi nessuna discriminazione se non in fatti incidentali, connessi con la natura fisica, la procedura consuetudinaria, o con la responsabilizzazione e tutto ciò che non è questione di privilegio tra i due sessi. Dovunque ci sia identità di fattori fisici, usi e responsabilità, i sessi sono sullo stesso piano; ove ci sia qualche differenza in proposito, la discriminazione si allinea con le differenze date. Nella sfera religiosa e spirituale, uomo e donne sono eguali: «E chiunque, maschio o femmina, opererà per il bene, e sarà credente, entrerà nel Paradiso e non gli sarà fatto torto nemmeno per una scalfittura d'osso di dattero…» dice il Corano (IV, 124). O ancora, nel campo dell'amministrazione del denaro e del possesso, tutti sono eguali secondo il detto coranico «agli nomini spetta una parte di ciò che han lasciato genitori e parenti, una parte determinata sia dei lasciti piccoli che dei grandi» (1V, 7)... Per quanto riguarda la legge in base alla quale l'uomo ottiene il doppio della donna come quota d'eredità, la ragione va trovata nelle diverse responsabilità che un uomo ha nella vita. Sposando una donna, egli si impegna a mantenerla insieme alla prole. Deve cioè sopportare tutto il peso dell'intera struttura familiare. Quindi non è altro che un suo diritto, non fosse altro che in nome di questa ragione, di avere un'aliquota pari a quella di due donne. D'altronde una donna, se sposata, deve provvedere a se stessa con quanto suo marito le da; se non si sposa o resta vedova, deve provvedere ai suoi bisogni, con il suo patrimonio, cioè con quanto ha ereditato. ...II Corano dice anche (IV, 34): «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle...». La ragione sta nel fattore fisico e nella consuetudine... Siccome un uomo è libero dalle cure della famiglia, può dedicarsi agli affari della società per lunghi periodi e applicarvi tutte le sue capacità intellettuali. La donna, al contrario, è limitata per la maggior parte della sua vita alle cure familiari. Il risultato è che queste responsabilità promuovono nella donna uno sviluppo in direzione delle emozioni e delle passioni, mentre nell'uomo la direzione è quella della riflessione e del pensiero…
DONNE E ISLAM. Un approccio autentico. Rilettura di "Donna e Islam: note metodologiche introduttive", 1976
L'autrice rilegge in una chiave contemporanea il contributo di Biancamaria Scarcia Amoretti "Donna e Islam: note metodologiche introduttive" pubblicato nel numero DWF, Anno I, n. 3, 1976. Il testo integrale del saggio autografo di Scarcia Amoretti è consultabile online, al titolo corrispondente in questo indice.
[La donna nel recente cinema egiziano. Alcune note, in LA DONNA DELLO SCHERMO, Nuova DWF (8) 1978]
Le osservazioni che seguono sono estrapolate dal materiale inviatoci da una giovane studentessa egiziana, Rawiya Sadeg, che ha spogliato la produzione cinematografica post-nasseriana, partendo dai film che avevano come protagonista o come personaggio centrale una figura di: donna. Non è un angolo visuale molto frequente, se si pensa che lavori recenti e di tutto rispetto ignorano praticamente il problema [cf. M.C. Aulas, Ecrans et caméras en Egypte, In «L’Egypte d’aujourd’hui: permanence et changements, 1805-1976» Paris, 1977, pp. 344-354]. A questo si aggiunga il fatto che la critica occidentale sul cinema arabo - all’interno del quale si colloca quello egiziano - non tiene nella dovuta considerazione la pur vasta produzione araba sull’argomento, la quale è, invece, per la nostra informatrice punto di riferimento essenziale. [Si tratta per esempio della «Rivista di cinema e arti», della «Rivista del cinema», di «Tali’a», delle pubblicazioni del Circolo del Cinema, dei lavori sul cinema egiziano di Sa’d al-din Tawtiq, e di ‘Abd al-Mun’am Sa’d, e soprattutto della recente tesi di M. Sa’id al-Hadidi sulla figura della donna nei film egiziani]. La rappresentazione della donna nel cinema egiziano è invece argomento di particolare interesse, perché l’Egitto è il massimo esportatore di film in tutta l’area meridionale e quindi i modelli che esso propone influenzano praticamente tutto il mondo arabo. Inoltre, la cinematografia egiziana, la prima a nascere nel Mediterraneo orientale, quando i paesi vicini ancora guardavano con sospetto e ostilità il nuovo mezzo di comunicazione, ha seguito spesso l’iter politico del paese. Accanto alla produzione squisitamente commerciale e di basso livello, che continua abbondante, ma che qui non ci interessa, visto che, programmaticamente, elude i problemi reali e crea per lo spettatore un’atmosfera di deresponsabilizzazione, si assiste molto presto a un serio tentativo di introdurre nei film egiziani tematiche sociali, che denunciano l’arretrata situazione del paese e contemporaneamente il risveglio nazionalistico in atto. Il prestigio culturale del prodotto è quindi funzionale a un preciso messaggio politico, fatto che si accentua in epoca nasseriana. L’autorità politica si adopera, quindi, a che il livello tecnico sia all’altezza dell’esperimento cultural-politico che intende condurre, e non è casuale che proprio il cinema sia uno dei primi settori industriali ad essere nazionalizzato agli inizi degli anni ?60. Per tutti questi motivi, l’Egitto si presenta nel mondo arabo all’avanguardia sia sotto il profilo tecnico raggiunto dalla sua cinematografia, sia per l’utilizzazione sociopolitica dei film, considerati strumento per vasti strati sociali e mediarne il consenso propagandando le scelte operate dal regime. II cinema offre, cioè, uno strumento di comunicazione particolarmente efficace in società sottosviluppata e l’esempio egiziano verrà seguito, per esempio, dalla produzione algerina, soprattutto dopo l’indipendenza. I grandi scrittori, o molti di essi, vengono coinvolti nell’operazione: romanzi e novelle di «ambiente» egiziano forniscono il materiale per soggetti cinematografici e i film che ne risultano, vagamente ispirati al nostro realismo, hanno la pretesa di costituire un saggio di analisi sociologica attraverso la rappresentazione delle condizioni in cui versa la società egiziana, e, nello stesso tempo, un contributo politico dovuto alla denuncia dei ritardi socio-economici che tale rappresentazione comporta. Date le premesse, sembrerebbe naturale che proprio la questione femminile dovesse essere un tema privilegiato, specie se si tiene conto del fatto che la società egiziana, al riguardo, si dimostra ricettiva di tematiche nuove, e pronta a discutere, con relativa libertà, dell’argomento «donna», considerato altrove scomodo e scabroso. La cosa non è invece così scontata e l’indubbia volontà di rinnovamento sociale si scontra con ostacoli pressoché insuperabili quando si affronta il tema della condizione femminile e affiorano remore inattese in un’intellighenzia per altri versi, occidentalizzata e spregiudicata. I film che affrontano direttamente il problema sono pochi, e di regola, il personaggio femminile non appare caratterizzato, quasi fosse un’astrazione, magari emblematica, ma priva della consistenza del personaggio maschile radicato in una situazione reale e rappresentato con i condizionamenti del caso. È raro che la donna del film egiziano abbia una professione definita; se questa è esplicitata è perché si tratta di una ballerina la cui eventuale «emancipazione» acquista un evidente segno negativo. La casalinga, nel suo ruolo di madre e di moglie, costituisce la stragrande maggioranza delle eroine egiziane, e la stessa attenzione rivolta all’ambiente contadino non mette in risalto il punto fondamentale, e cioè che la donna contadina lavora alla stregua dell’uomo e che l’economia familiare non può prescindere dal suo contributo. La produzione fino alla morte di ?Abd el-Nasir, nonostante sia spesso fortemente ideologizzata, è perciò deludente per quanto riguarda la rappresentazione della donna. La condizione femminile è, nel migliore dei casi, uno degli aspetti, e neanche il più appariscente, del disagio socio-economico tipico del sottosviluppo. I modelli tradizionali non sono sostanzialmente messi in discussione. Si può anche ammettere che la donna abbia un certo diritto a scegliere liberamente il suo destino, almeno in un campo, quello dell’amore, ma la ragazza del Postino (1968) paga con la morte l’audacia d’essersi concessa all’uomo amato, e il riscatto di una vita tumultuosa da parte della protagonista di Noi non piantiamo le spine (1970) è il sacrificio di sé stessa per salvare il figlio malato. Questa tendenza, già generalizzata, viene confermata e rafforzata nella produzione più recente. Eventualmente, se un mutamento c’è, questo si registra nel fatto che si delinea un modello piccolo-borghese di tipo americano accanto a quello della donna tradizionale araba. Effetto della liberalizzazione economica voluta da Sadat che ha parzialmente compromesso l’eredità nasseriana e della conseguente apertura del mercato egiziano alla produzione occidentale. L’immagine femminile sullo schermo, che puntualmente si adegua al nuovo ordine, denuncia quella crisi di valori che neppure la guerra del 1973 è riuscita a far dimenticare. È quindi il matrimonio borghese e cittadino il tema più consueto, un matrimonio rappresentato come una prigione (Notte e catene del ?73), come una rinuncia a sé stessi (Sotto un foglio di cellofan, 1975), ma, nello stesso tempo, il punto di arrivo obbligato per una donna, anche emancipata (Talvolta l’amore viene prima del pane 1977) perché nel matrimonio ella trova il solo equilibrio possibile. Di conseguenza vengono riproposti i soliti clichés; sulla madre che, pur se vedova, deve necessariamente scegliere tra il dovere e i suoi sentimenti (L’imperatrice M., 1972, e Mondo, giovinezza, giovinezza, 1976); sulla donna che muore per lavare il suo onore, una volta che il suo segreto amoroso viene scoperto (La paura, 1972); sull’inevitabile perdizione che attende la ragazza che riesce finalmente a realizzare il sogno di lasciare la campagna e trasferirsi in città (Il richiamo, 1975). I pochi casi: «diversi» non rappresentano nessuna alternativa, ma piuttosto riaffermano che la scelta autonoma della donna non può procurare altro che solitudine e angoscia. La giovane studentessa che vede, attraverso il suo professore, un mondo di speranza, in contrasto con la chiusura del suo ambiente familiare, non saprà reagire alla delusione del suo maestro di vita, quando questi sperimenterà personalmente il fallimento delle sue illusioni, venendo a contatto diretto con l’Europa (Stranezze, 1973). Così rimarrà sola nella sua battaglia la donna che decide di non abbandonarsi alla fatalità del suo destino, perché l’uomo da lei amato non possiede la sua coerenza e i1 suo coraggio (L’amore che fu, 1973). Lo stesso problema del divorzio, affrontato da molti film, con l’intento di mettere in risalto quanto sia iniqua nei confronti della donna l’attuale legislazione (Voglio una soluzione, 197), non denuncia appieno l’oppressione femminile, ma si inserisce piuttosto in una generica protesta liberal-borghese. L’aumento demografico, il divario crescente tra città e campagna, l’emarginazione delle masse inurbate, ecc., fatti che la donna subisce in prima persona e con un’intensità maggiore di quella del suo compagno, sono taciuti, mentre la donna mantiene e/o riprende il suo connotato di oggetto, destinato a rappresentare il piacere e il successo dell’uomo. Per il cinema egiziano di oggi la problematicità del futuro non è argomento da toccare.
IDENTITÀ E RUOLO DELLE DONNE NEL CINEMA IRANIANO CONTEMPORANEO. Rilettura di "La donna nel recente cinema egiziano", 1978
L'autrice rilegge in una chiave contemporanea il contributo di Biancamaria Scarcia Amoretti "La donna nel recente cinema egiziano. Alcune note" pubblicato nel numero LA DONNA DELLO SCHERMO, Nuova DWF (8) 1978. Il testo integrale del saggio autografo di Scarcia Amoretti è consultabile online, al titolo corrispondente in questo indice.
[A proposito della rivoluzione iraniana: una chiesa contro le donne?" in IN HOC SIGNO…Ideologia e politica della chiesa, Nuova DWF (6),1981]
1 - Tra le molte ripercussioni che la Rivoluzione Iraniana ha determinato a livello di opinione pubblica, bisogna annoverare anche il risveglio di interesse per la questione femminile nei paesi islamici. Di fronte alla imponente mobilitazione di massa, senza precedenti nell’area, che ha fatto registrare la partecipazione attiva di milioni di donne musulmane, il mondo occidentale ha inizialmente reagito con un senso di disagio, che si è andato attenuando via via che tale mobilitazione veniva spiegata e interpretata come un fenomeno anomalo, non rapportabile alla nostra esperienza storica. Esso diventava una manifestazione di «diversità», riconducibile a una civiltà e a una cultura «diverse», e che come tale andava recepito. L’Occidente, è vero, si trovava di fronte a un difficile problema politico, ma questo non doveva tradursi in una messa in discussione o in un ripensamento critico delle proprie categorie d’analisi. Sia da parte di chi, per collocazione politica, fosse, in linea di principio, positivo nella valutazione degli eventi iraniani, sia di chi vi intravedesse un pericolo per l’attuale assetto degli equilibri internazionali, l’elemento di massima differenziazione veniva individuato nella religione, cioè nell’Islam. L’Islam veniva a motivare globalmente una serie di comportamenti individuali e collettivi e dava la chiave di lettura di quel modo particolare di tradurre in pratica un principio teorico e ideale, del quale modo l’Iran era un esempio paradigmatico. Di qui le definizioni di fanatismo e di integralismo a qualificare gli avvenimenti iraniani. Eppure, all’apparenza, una simile reazione poteva sembrare rispettosa, proprio in nome della «diversità» invocata a spiegazione di una Rivoluzione che usciva da tutti gli schemi a noi noti, soprattutto fino a quando i destini della Rivoluzione non erano ancora segnati. La «diversità» poteva essere ammessa come metro di giudizio. L’Occidente non aveva ancora bisogno di essere rassicurato nelle sue certezze. È solo all’indomani della vittoria sulla dinastia Pahlavi, che la vera battaglia contro l’Iran si scatena. Ci voleva un fatto incontrovertibile e che non lasciasse dubbi sulla buona fede occidentale: come spesso succede, è stata la questione femminile uno dei pretesti dell’Occidente per giustificare la sua non disponibilità a trattare con un paese del sottosviluppo in forme nuove. È così che scoppia da noi la questione del velo. 2 - Un fatto del genere sembra, a me, così tipico di tutto un atteggiamento politico e ideologico occidentale che vorrei fare alcune osservazioni, anche se esse sono certamente scontate per chi è impegnato in un qualunque settore della ricerca dall’«altra parte», dalla parte delle cosiddette realtà sommerse - siano esse le donne o i popoli in via di sviluppo -. La prima e la più ovvia riguarda l’ennesima dimostrazione del fatto che la situazione femminile viene considerata emblematica del livello di evoluzione raggiunto da una società nel suo complesso. E questo è certamente vero, senonché proprio la questione femminile viene il più delle volte trattata come avulsa, estrapolata dal contesto storico. Diventando un simbolo, si escludono, o si eludono, possibilità di analisi che non siano globali e onnicomprensive, e che siano invece storicamente plausibili, cioè puntuali, contingenti, settoriali. Il che equivale a dire che oggetto di queste analisi non sono le donne che il problema femminile viene, in modo più o meno raffinato, strumentalizzato da chi conduce il gioco. In questo senso il caso dell’Iran non è eccezionale. Se si voleva screditare un evento la cui portata innovativa è ancora ben lungi dall’essere valutabile, se si voleva dimostrare che la nuova dirigenza iraniana riportava il paese verso l’oscurantismo medievale, l’argomento era ben scelto. La superiorità occidentale ne usciva una volta ancora confermata con piena soddisfazione di tutti. Ma a questo punto si impone una seconda riflessione: con piena soddisfazione di tutti, anche delle donne. Non voglio affatto proporre una esegesi dei vari commenti che le donne hanno formulato a proposito della situazione femminile in Iran. Voglio sottolineare però che nella loro condanna - giusta - dell’imposizione del velo da parte di un potere cosiddetto clericale e dell’accettazione - tutta da spiegare in termini culturali e storico-politici - del medesimo da parte della maggioranza delle donne iraniane, non mi sembra sia possibile cogliere un linguaggio diverso da quello dei commentatori politici maschili che attaccavano la stessa cosa in funzione di un ben preciso disegno politico e ideologico. Due le conseguenze. Si è persa una volta ancora l’occasione di trovare tra le donne, e per le donne, forme nuove di solidarietà per cui la difficoltà – più volta emersa – di comprensione e di comunicazione tra movimento delle donne in Occidente e movimenti femminili «terzo-mondisti» ha avuto un’ulteriore conferma. D’altro canto, la questione dell’integrazione nel sistema rimane drammaticamente aperta alla stessa stregua, per noi, nonostante i risultati raggiunti nel processo di liberazione, per loro, alle prese con elementari problemi di emancipazione. E con questo intendo che, proprio il caso dell’Iran dimostra come sia possibile da parte del femminismo condurre, sia pure inconsapevolmente, un’aberrante operazione di imperialismo culturale che sminuisce, nei tatti, il significato che può avere per le donne, a prescindere dalla civiltà cui esse appartengono, la proposta che sottende tutto il femminismo, e cioè il diritto, non tanto e non solo alla parità, ma alla diversità. E il diritto alla diversità non può prevedere esportazione né di ideologia, né di metodologia, ma solo attenzione ai percorsi che possono condurre alla realizzazione di un obiettivo comune, quell’alternativa che noi ci proponiamo e che le donne iraniane, facendo la Rivoluzione, si sono certamente proposte. 3 - Per evitare la prevaricazione culturale e la schematizzazione antistorica di cui si è detto, è necessario un lavoro preliminare di conoscenza dei meccanismi ideologici che operano in un determinato contesto. In questa prospettiva si collocano le note che seguono, e che pure soltanto esemplificative di quella che dovrebbe essere la ricerca propedeutica alla comprensione del problema della donna in Iran e per estensione del senso degli avvenimenti che hanno sconvolto la realtà di quel paese. In termini nostri, il potere sembra oggi configurarsi in Iran come la supremazia di un’ala clericale, che tenderebbe a organizzarsi in una vera e propria «chiesa» in contrapposizione di un’ala moderata e laica. Senza affrontare disquisizioni filologiche circa l’inesistenza di una qualunque struttura paragonabile alla chiesa in Islam, va detto che i mollà, i cosiddetti preti, si collocano tuttora con precise funzioni in un contesto sociale, senza nessuna prerogativa sacrale. Essi non formano un corpo coerente e unitario, separato dal resto della società, e la loro funzione si esplica soprattutto in ambito giuridico. Essi sono i mediatori della legge nei con- fronti da un lato del dato rivelato, il Corano, dall’altro della casistica delle situazioni quotidiane che vanno affrontate. Essi interpretano dunque la legge, ma non hanno nessun potere, analogo a quello sacerdotale, che vincoli il credente. Questo è l’aspetto tradizionale della questione, oggi in gran parte ancora valido. Ma c’è qualche cosa di più e di nuovo rispetto al passato. Per quanto riguarda le donne, oggi ci si trova di fronte a una serie di testi, non tutti opere di mollà, che stanno assumendo una loro ufficialità, chiesastica appunto, e che in questo senso stimolano o recepiscono una determinata visione del problema femminile. Questi testi non sono tutti congrui tra loro, sebbene tutti denuncino un presupposto comune: a matrice islamica. Si tratta, però, di un Islam largamente rivisitato. Infatti, pur partendo dai principi tipici dell’Islam, questi principi non vengono poi considerati alla stregua delle varie interpretazioni e delle diverse applicazioni concrete e storicamente sperimentate che si possono documentare nel corso dei secoli. Questo tatto crea una sorta di doppio livello, quello ideologico e quello pragmatico, non sempre in rapporto di causalità tra loro. Il primo presenta non poche novità teoriche, passibili di ulteriori sviluppi; il secondo permane per lo più nell’ambito della tradizione di cui rafforza gli elementi più conservatori facendo appello alla nuova teoria che non è in grado di elaborare gli strumenti che dovrebbero renderla operativa. L’esempio più significativo a proposito delle donne è che la teoria recepisce dell’Islam il concetto di parità, o per meglio dire di egualitarismo che deve sancire i rapporti umani, e quindi la relazione uomo/donna. La donna viene quindi definita in prima istanza come «individuo e persona» e solo successivamente come «donna». Ciò viene spiegato con il fatto che «dal momento della creazione di Adamo ed Eva, si sono avuti due esseri, un uomo e una donna, ognuno dei quali è semplicemente la metà del binomio» senza che sia «ammissibile la superiorità di uno rispetto all’altro», visto che «la perfezione, la completezza» risiede nell’insieme dei due esseri, «nel loro rapporto reciproco», non nella loro autonoma individualità. In linea di principio, se ne deduce parità di diritti per la donna, parità di occasioni. Intatti Khomeini sostiene: «Dal punto di vista dell’essere umano, non c’è differenza tra uomo e donna. Sono entrambi esseri umani e la donna ha il diritto, come l’uomo, di costruire il suo destino». Per questo «la donna non ha soltanto parità di diritti con l’uomo, ma nelle guerre del Profeta, la donna ha combattuto come ufficiale e come soldato per il trionfo della fede islamica; ed è stata sottomessa agli stessi doveri dell’uomo, correndone gli stessi rischi». Il dato teorico funziona quando non si mettono in discussione ruoli consolidati e – cosa da tener presente – quando tali ruoli sono ancora ampiamente accettati in Occidente, che è poi, in maniera esplicita, proprio nel caso della questione femminile, l’alternativa da sconfiggere. Dice ancora Khomeini: «Nel Corano, la donna, come l’uomo, è un essere umano e i due sono responsabili davanti a Dio del loro avvenire e della società. La vita familiare è fondata sulla scelta reciproca e ognuno ha eguale responsabilità nei confronti dell’altro. Sono entrambi responsabili verso i figli. Nel dominio politico e sociale, la donna, come l’uomo, ha diritto di parteciparvi, e così nella costituzione del governo, la donna, come l’uomo, ha diritto di eleggere e di essere eletta». Ma sostiene anche che «In alcuni casi, esistono, certamente, tra uomo e donna differenze che non sono legate alla natura umana» e che le «donne sono libere in tutte le questioni che non sono incompatibili con il rispetto e l’onorabilità», e la frase si conclude con «l’aborto è proibito nell’Islam». Sarà attraverso distinzioni come quella tra «essere umano» e «donna», tra «libertà» e «onorabilità» che si offre lo spunto per motivare il permanere di una situazione di soggezione, nel senso che tale soggezione viene considerata da un lato tutta contingente, effetto di una politica disastrosa e del sottosviluppo determinato da tale politica, dall’altro come la garanzia, in questo preciso momento storico, della conservazione di valori inalienabili, soprattutto di ordine morale, valori che l’Occidente avrebbe irrimediabilmente perduto, creando così una nuova e ben più tremenda forma di oppressione femminile, irreversibile nella pratica. Per cui non traspare contraddizione tra l’effettiva condizione delle donne e l’affermazione di Khomeini che dichiara «Noi siamo per l’emancipazione delle donne e per la loro istruzione. All’inizio dell’Islam, al tempo di Maometto e di Ali, esse partecipavano a tutte le attività. Questo periodo sarà un esempio e fonte di ispirazione per il governo islamico». Tant’è vero che la nuova Costituzione iraniana recepisce formalmente questo spirito e sancisce: «i diritti universali degli individui di ambo i sessi, garantendo la sicurezza e l’equità giurisdizionale per tutti e la parità di ognuno davanti alla legge» (art. 5 per p). Non solo: «Lo Stato è tenuto a garantire i diritti della donna in tutti i settori, attenendosi ai criteri dell’Islam; e deve perciò realizzare gli obiettivi sotto indicati: a) provvedere condizioni favorevoli per lo sviluppo e la personalità della donna e ripristinare i suoi diritti materiali e spirituali; b) proteggere le madri, in particolare nel periodo della gravidanza e dell’allattamento dei tigli, e proteggere i bambini abbandonati; c) istituire tribunali tutelari competenti; d) offrire servizi assicurativi speciali per le vedove e per le persone anziane e prive di sostegno; e) offrire la tutela dei figli a madri adatte e in grado di assolvere tali compiti, in caso di mancanza di un tutore legale » (art. 21). Si parte cioè da un principio generale equo, che ha il suo fondamento nell’Islam, ma esso viene poi, non casualmente, esemplificato soltanto in relazione a un ruolo femminile ben precisato, quello materno, il quale, per estensione, non in contrapposizione, può anche inglobare l’attivismo politico militante in circostanze particolari. E del coraggio delle donne, «materno» appunto, lo stesso Khomeini dà atto quando dice: «Nelle manifestazioni di piazza, le nostre donne sono venute a combattere, i bambini in braccio, senza avere paura né delle mitragliatrici né dei cannoni. Hanno organizzato riunioni politiche, in numerose città d’Iran; e hanno svolto una funzione preziosa nella nostra lotta». E la necessita di mantenere circoscritta la sfera di intervento femminile – cosa non semplice dato il processo rivoluzionario in atto nel paese, ad opera non solo, ma anche delle donne – fa sì che gli ideologi del post-rivoluzione reinterpretino quanto era stato scritto sulla donna da chi, se così si può dire, ha preparato lo spirito rivoluzionario nel paese. Non è casuale che un Bani Sadr ponga l’accento sulle contraddizioni in cui si dibatte la donna emancipata europea, per dissuadere le donne iraniane dal seguirne l’esempio. non è neppure casuale che egli usi, anche quando il riferimento non è esplicito, della rivalutazione del ruolo storico femminile dell’Islam iniziata da un ‘Ali Shari’ati, il quale, pur attraverso l’esaltazione di valori tradizionali, cioè islamici, rilegge ideologicamente, ma in termini nuovi e attualizzanti, la vita «ideale» della figlia del profeta, Fatima, prototipo della femminilità islamica, simbolo della resistenza al potere, esempio di «rivoluzionario permanente». D’altronde se non esistesse una duplicità di livelli, sarebbe difficilmente comprensibile l’adesione della stragrande maggioranza delle donne iraniane, siano esse organizzate o meno, alla politica del regime. A meno che non si voglia postulare per le donne iraniane una qualche congenita incapacità di prendere coscienza della propria condizione, e questo, dopo che esse hanno dato prova di una indiscussa maturità politica, rifiutando, tra l’altro, come soluzione dei propri problemi, l’ambigua opera di modernizzazione condotta dal regime Pahlavi nei loro confronti. In effetti esse si riconoscono nella proiezione ideale e non registrano ancora lo iato tra dato teorico e sua realizzazione concreta. Il che si motiva soprattutto se si tiene conto del clima di tensione politica che impedisce una qualunque forma di normalizzazione per cui molti fatti possono, plausibilmente, essere attribuiti a uno stato di cose che permane fluido e che, almeno in teoria, non esclude la possibilità di evoluzioni anche in senso contrario a quello che la dirigenza attuale sembra perseguire. E fin qui ancora niente di eccezionale rispetto a situazioni consimili. L’ufficialità attribuita all’assunto teorico agisce sulle masse femminili in funzione di contenimento di spinte innovatrici, non diversamente da come può agire, in determinate circostanze, il dettato di una qualunque Chiesa. Il problema diventa invece specifico quando si affrontano le 1mplicazioni culturali e politiche di tale assunto. Affiora allora quella «diversità» da cui si è partiti nella nostra analisi e che è stata, se non raramente, colta nella sua effettiva portata. E qui la diversità non è né ideologica né religiosa, ma solo squisitamente politica. L’Iran si trova di fronte due ordini di difficoltà: il recupero di una identità culturale che non può che ricostruirsi attraverso unna cosciente e totale negazione dell’occidente, e la necessità di giungere a una coesione nazionale superiore a quella corrispondente al grado di coscienza nazionale raggiunto dalle masse iraniane, La questione femminile, più di altre, nella sua trattazione teorica riflette i due ordini di problemi. L’enfasi posta sull’Islam, sulla donna ideale e è «musulmana», non è che il risvolto della ricerca delle proprie matrici culturali, ricerca che non ha per sé nessun connotato propriamente religioso, o clericale o integralista, almeno nel senso attribuito dai commentatori (e commentatrici) occidentali che hanno registrato la cosa. D’altra parte l’islamicità è a sua volta strettamente correlata alla definizione del ruolo della donna, funzionale alla formazione di uno stato nazionale indipendente e sovrano. E si aprono così una serie di contraddizioni, che si possono difficilmente comporre senza un qualche cosa di nuovo, che colleghi organicamente le nostre battaglie e quelle che caratterizzano i paesi del cosiddetto Terzo Mondo, un qualche cosa che, almeno da parte nostra, non è certamente finora emerso. E veniamo alle contraddizioni nel caso dell’Iran: l’ideale politico della tradizione islamica sovranazionale ed ecumenico viene smentito nei fatti da una aberrante equazione tra Islam e coscienza nazionale, presupposto, però, di un qualunque processo di emancipazione e di liberazione nell’area. Mentre si rifiuta l’Occidente, se ne acquisisce uno dei valori fondamentali, il nazionalismo, con tutte le sue implicazioni istituzionali e sociali. Se il processo di emancipazione viene obiettivamente favorito dalla battaglia per l’indipendenza nazionale, la realizzazione e il consolidamento dell’indipendenza, una volta raggiunta, dipendono dalla rinuncia delle donne al riconoscimento dei loro diritti specifici, Senonché la formulazione di tali diritti, qualora non si trovi un linguaggio proprio, autonomo e diverso, l’Islam appunto, si presenta come un’ennesima manifestazione di adesione a un modello di civiltà, quella occidentale, responsabile di avere introdotto nel paese i guasti culturali e socio-economici che hanno provocato la degradazione morale e politica cui la lotta nazionale intende ovviare. E il circolo si chiude con i1 sacrificio, più o meno consapevole, più o meno totale, da parte delle donne. La polemica sul velo non è che l’esemplificazione più esplicita di quanto si è detto. La teoria non parla di velo, nel senso di ciador «abito nazionale adottato dalla maggioranza delle donne persiane, ma che coesiste con altri costumi, curdi, turchi, baluci», come ammettono i nostri stessi testi. Il termine usato (higiab) è coranico e viene assunto in un suo significato traslato, di pudore, modestia, rispetto. Esso indica cioè, un fatto etico e comportamentale che coinvolge non solo le donne, ma la società musulmana nel suo complesso. Esso diventa simbolicamente la bandiera di quella rivoluzione dei costumi che è presupposto essenziale per liberarsi culturalmente oltre che politicamente dall’imposizione imperialistica occidentale e riallacciare le fila della propria storia e della propria tradizione, sia pure idealizzate. Tutto ciò implica, ed è chiaro, un’altra conseguenza, che è poi spesso, un elemento caratteristico di molte civiltà pre o proto-industriali, la netta divisione del mondo maschile da quello femminile. Distinzione però che nella sua trasposizione ideologica non diventa automaticamente sinonimo di segregazione femminile, ma piuttosto riconduzione a una società giusta che, oltre alla parità dei diritti, garantisca autonomia, differenziazione dei ruoli e soprattutto dei modelli. Ma nel passaggio alla pratica, la teoria viene snaturata dalla coincidenza degli interessi degli uomini che gestiscono il potere e delle necessità obiettive determinate dal momento politico vis suto dal paese. Il velo, il ciador, assume così il significato di adesione all’Islam ed esprime i sentimenti nazionali di tutto un popolo contro l’occidentalizzazione e l’imperialismo che questo comporta. Se nel 1977 venivano respinte le iscrizioni delle donne velate all’Università di Tehran, nel ?78 il velo diventa simbolo di pro testa anche nelle università. E a Isfahan, donne che hanno da sempre abbandonato il velo si presentano velate ai corsi universitari. Le grandi manifestazioni di massa che conducono alla caduta del regime Pahlavi avvengono all’insegna del velo. Ma il «clero» parla di a libertà di scelta», nell’ambito della modestia islamica. Quando l’opposizione antiamericana tende a radicalizzarsi con la presa degli ostaggi e quando si viene a creare intorno all’Iran un quasi totale isolamento, velo, proprio a livello ufficiale, diventa la «divisa nazionale» che sta a indicare l’indisponibilità del regime a trattare con il «demonio americano». Non solo. La divisione, diciamo tradizionale, tra uomini e donne si trasforma in segregazione programmata: abolizione delle scuole miste, obbligo di frequentare piscine, spia, palestre separate, ecc. E le donne? alcune, poche, protestano, e sono in genere quelle che non hanno vissuto «dall’interno» il dominio dello scià, per cui è facile accusarle di non avere radici, di essere transfughe. Altre, sempre poche, quelle che sanno e possono parlare, spiegano, motivano, approvano con o senza riserve. Le più tacciono, ma continuano la loro lotta che sembra identificarsi ancora con quella del- l’indipendenza, ma che può anche avere per loro valenze a noi ignote. Slogans superati, trappole fin troppo conosciute. Forse è vero. Ma è poi quello che viene proposto in alternativa? E lo scandalo è proprio il mezzo migliore per farsi capire, qualora si abbia pronta una soluzione? Nota bibliografica: Invece di una annotazione puntuale ma inutilizzabile da parte di chi non è addetto ai lavori, preferisco corredare queste note con la presentazione del materiale sul quale ho lavorato. Si tratta in prima istanza dei testi di ?Ali Shari’ati, considerato l’ideologo della rivoluzione fino a quando, all’interno del gruppo dirigente iraniano, non si è delineata una netta opposizione tra un’ala moderata e una più radicale e integralista. ?Ali Shari’ati, morto in circostanze rimaste oscure durante il regime dello Scià, rielabora l’ideologia dell’Islam sciita, la corrente islamica maggioritaria in Iran, come quella del contropotere, che avrebbe attraversato tutta la storia iraniana determinando al suo interno un latente ma costante spirito rivoluzionario. I testi che si riferiscono alla questione femminile sono Fateme Fateme ast (Fatima è Fatima), in cui analizza il significato simbolico e storico della figura e del ruolo della figlia del Profeta, e Zan-e mosalman (la donna musulmana) in cui traccia quelli che, secondo lui, sono gli elementi distintivi, in senso storico e ideale della donna musulmana. Oltre a questi testi, ho visto anche la raccolta Zan az diagah-e doktor ?Ali Shari’ati (la donna dal punto di vista del dottor ?Ali Shari’ati). Di Bani Sadr, attuale presidente della repubblica Islamica d’Iran e esponente dell’ala moderata nell’attuale regime iraniano ho preso n considerazione: il capitolo «Mas’aleye zan» (la questione femminile) del libro Usul-e Rahnema va Zabeteha-ye hukumat-e eslami (I principi di guida e le regole del governo islamico) in cui risponde alle accuse rivoltegli dalla stampa occidentale sulla situazione delle donne. Prende, tra l’altro, in considerazione le osservazioni che vengono fatte circa gli eventuali vantaggi economici e giuridici attribuiti dall’Islam alla donna, ma nega che essi possano essere visti al di fuori di una valutazione organica e globale della realtà islamica. È questo il testo che, forse, più accanitamente di altri, rivendica alla donna musulmana una dignità ormai perduta dalla donna occidentale, citando come uno degli esempi più validi in proposito la situazione in Italia. Di Khomeini si sono visti alcuni appelli e alcune risposte alla stampa occidentale. raccolti per esempio, in un testo Naqsh-e zan dar enqelab-e eslami (la figura della donna nella rivoluzione islamica), che contiene sullo stesso argomento anche le osservazioni di un altro esponente iraniano di rilievo, Naser Makarem. Alcune citazioni di Khomeini che io riporto si ritrovano anche in Pensées politiques de l’Ayatollah Khomeini, a cura di Y. A. Henri, Paris, 1980, pp. 27-28. Naturalmente il testo base, anche se non allude alla questione femminile, ma cui si riferiscono molte delle sue osservazioni a proposito dell’Islam è quello che passa per il manifesto di Khomeini, la sua Velayat-e faqih (la tutela ad opera del saggio) per cui cfr. Khomeini, Pour un gouvernement islamique, Paris 1979. Per la «Costituzione iraniana» Si rimanda alla traduzione italiana integrale pubblicata in «Relazioni internazionali» n. 7, 16 febbraio 1980 e n. 8, 23 febbraio 1980. II commento da me tenuto presente è quello di Abu’l-Fazl Gharati, Shakhsiyat-e zan va kudak dar qanun-e asasi (la personalità della donna e del fanciullo nella costituzione). Per quanto riguarda le opinioni degli altri ayatollah di rilievo, Taleqani, Beneshti, ecc. ho consultato una raccolta di loro interviste o proclami, dal titolo Naqsh-e zan dar hukumat-e eslami (l’immagine della donna nel governo islamico). Importante anche ai fini del mio discorso un testo pubblicato dalla «Nahzat-e zanan-e mosalman» (la rinascita delle donne musulmane) dal titolo Khosusiyat-e yak dokhter-e mosalman (le peculiarità di una ragazza islamica). Tutti i testi qui citati sono stati editi in brochures a Teheran, ma senza data, a cura di varie organizzazioni, di cui la più importante è quello citata a proposito dell’ultimo testo.
LE DONNE IRANIANE DALLA RIVOLUZIONE ALLA REPUBBLICA ISLAMICA: OLTRE LA DIGNITÀ E LE VIRTÙ ISLAMICHE. Rilettura di "A proposito della rivoluzione iraniana, una chiesa contro le donne?", 1981
L'autrice rilegge in una chiave contemporanea il contributo di Biancamaria Scarcia Amoretti "A proposito della rivoluzione iraniana: una chiesa contro le donne?" pubblicato nel numero in Nuova DWF (6), In hoc signo…Ideologia e politica della chiesa, 1981 Il testo integrale del saggio autografo di Scarcia Amoretti è consultabile online, al titolo corrispondente in questo indice.
[Di fronte al problema palestinese: una questione di metodo, in Nuova DWF (22), ISLAM. Tra un Mondo e l’Altro, 1982]
1. Proponendo una riflessione sul problema palestinese non si intende offrire un quadro più o meno completo, più o meno aggiornato, sulla condizione della donna palestinese e sul ruolo che essa esplica nell'attuale situazione politica. Un tema del genere, per quanto importante e centrale per la comprensione del problema stesso — e che è già stato affrontato da chi scrive, in passato, sulle pagine di questa rivista — è riduttivo rispetto all'emblematicità che il caso palestinese riveste, soprattutto oggi, dopo i drammatici avvenimenti in Libano dell'estate '82. La questione palestinese si colloca, nella sua dimensione storico-sociologica, nel contesto del mondo arabo-islamico, riguardo al quale, nelle analisi correnti, è spesso il dato «Islam» a emergere, come elemento caratterizzante il processo politico che in tale mondo è in atto, e la specificità culturale di chi, in un modo o nell'altro, vi è coinvolto. Si preferisce, cioè, dare esoticamente rilievo a quanto si presume diverso, per il quale si postula una mediazione interpretativa che può essere manipolata, e si evita di interrogarsi consapevolmente su quanto si può chiamare il reale, per conoscere il quale non sono necessarie categorie aliene alla comune esperienza storica di ognuno. La preminenza data al fattore religioso non è che un esempio di un atteggiamento alquanto di moda oggi, che recupera il «diverso» in forme consumistiche e lo usa, mostrando di integrarlo, come alternativa di una facciata, utile a consolidare l'operazione inversa a quella che si sarebbe potuto supporre: il mantenimento, cioè, dell'integrità delle proprie tradizionali strutture mentali e dei propri inadeguati e superati modelli comportamentali, in un raffinato gioco il cui risultato più ovvio, l'imperialismo culturale messo in opera contro il diverso, è solo una delle manifestazioni più appariscenti. Trattare quindi di questione palestinese senza ricalcare luoghi comuni e slogans propagandistici significa, almeno per me, affermare pregiudizialmente la mia disposizione a rivedere alcune categorie e metodi d'analisi che possono apparire, a prima vista, scontati, acquisiti, validi a tutti gli effetti. Con un qualche cosa in più. L'esperienza femminista, per quanto mi riguarda mi ha facilitato, o per meglio dire suggerito, un approccio meno stereotipo al reale nel suo complesso e un punto di vista più critico sul significato della ricerca, in particolare quand'essa tocca situazioni e fatti che hanno diretta attinenza con il «politico». E questo in due direzioni. La prima esclude consapevolmente ogni forma di estraniazione da parte di chi fa ricerca nei confronti del suo oggetto di studio, in quanto proprio l'apporto soggettivo di chi opera l'analisi può aprire orizzonti e prospettive nuove. Diretta conseguenza di ciò è il fatto che di qualunque ricerca si è condotti a motivare la plausibilità politica, individuando, tra l'altro, in una specie di traduzione in termini operativi dei risultati della ricerca stessa, quanto può diventare patrimonio comune di tutti, ma soprattutto di tutte, in funzione di quella famosa memoria storica da costruire o ricostruire per le donne, e quanto può funzionare da molla per un impegno da esplicare ai fini di un intervento concreto, efficace, e possibilmente sistematico, da parte delle donne sul reale. La seconda è invece d'ordine più strettamente metodologico, e riguarda il rischio sempre presente quando si voglia operare con un'ottica di parte, dalla parte delle donne, oltre che naturalmente dei palestinesi, in questo caso. Esso può consistere da un lato nel limitare il fenomeno in esame, privilegiandone un aspetto a scapito della globalità, da cogliersi nelle molteplici espressioni attraverso cui si manifesta e nelle interrelazioni con gli altri fenomeni determinanti il contesto in cui si colloca, dall'altro nella ricezione inavvertita di schemi di analisi, contestati quando ci si fermi all'aspetto privilegiato, ma utilizzati quando appunto si intenda andare oltre, cioè oltre il fenomeno «donna» in senso specifico e riduttivo. Ciò non significa che nella questione palestinese, o nell'irrisolto nodo del contenzioso arabo-israeliano che dir si voglia , non ci sia, o non si debba sottolineare, quel determinato aspetto concernente le donne . Al contrario, partendo da tale aspetto si possono trarre spunti di riflessione validi ben al di là del problema palestinese e nel contempo, proprio in relazione a tale aspetto è forse possibile esemplificare alcune delle difficoltà o delle ingenuità o delle lacune su cui la riflessione femminista ha incominciato a operare soprattutto in ambito di ricerca storica, quand'essa affronta e interseca tematiche squisitamente politiche. 2. E veniamo più direttamente al nostro argomento, cominciando proprio con un'osservazione a proposito del metodo. Uno spoglio, anche approssimativo, degli studi che si riferiscono al Medio Oriente, e soprattutto alla questione palestinese, mette in evidenza l'arretratezza dell'approccio metodologico, specie nel senso che esso permette che si operi una mistificazione sostanziale dei termini del problema. Si assiste a una progressiva riduzione a schemi noti e tranquillizzanti — una forma di inglobamento, s'è detto — della situazione mediorientale. Anzi, più drammatica essa si presenta, più convulso diventa Io sforzo di inserirla in un panorama complessivo di cui si conoscono orizzonti e tratti distintivi. In questa prospettiva, la pretesa obiettività dell'analisi politica che tende a considerare fondamentali nei rapporti di forza locali i fattori esterni (ruolo delle Grandi Potenze, ordine economico internazionale, equilibri strategici, ecc.) assume un preciso significato. Se Israele viene considerato in funzione di ognuno di questi elementi, per così dire, primari, alla sua azione si viene ad attribuire un ruolo gregario, di esecutore materiale di ordini che provengono dall'esterno, e la dinamica politica e sociale indotta dalla sua presenza nell'intera regione non solo in direzione palestinese — diventa un dato secondario e poco significativo ai fini di un giudizio complessivo sulla situazione. Si è dunque di fronte a una prima contraddizione: proprio l'analisi politica più complessiva (e quindi più persuasiva) si struttura in linea generale secondo una serie di griglie interpretative che ostacolano una conoscenza autonoma dei protagonisti della vicenda mediorientale; e il «reale» si offusca fino a diventare irriconoscibile per chi lo vive e se lo rappresenta secondo la sua diretta esperienza soggettiva. Non c'è dubbio che ciò sia (o possa essere) funzionale alla politica israeliana, che preferisce avallare l'immagine ad essa prestata in sede internazionale, piuttosto che mostrare il volto con cui appare nel contesto locale. Rimane tuttavia il fatto che analisi politiche di questo genere comportano solo un approfondimento di ciò che ci è già relativamente noto, in quanto espressione di una nostra realtà e di una nostra visione delle cose; con l'ovvio corollario che è la nostra realtà l'unico metro valido di valutazione, e che è ancora la nostra realtà il più plausibile soggetto d'iniziativa politica, capace di modificare gli assetti esistenti. Di qui tutte le mosse politiche e diplomatiche che i palestinesi dovrebbero far proprie, e di cui tanto si discute, per facilitare la nostra soluzione del loro problema. Quando poi si tenta di percorrere vie meno battute, sono le categorie terzomondiste a intervenire, puntando su un'acquisita definizione di sviluppo e sottosviluppo, di società civile e modello democratico versus società che rivendicano la possibilità di sperimentazioni alternative. Attraverso tali categorie si riconducono a pura dimensione antropologica gli eventuali elementi di diversità e/o novità insiti in quelle sperimentazioni: diversità e novità, peraltro, in genere solo teoriche, che riguardano la formulazione del modello, e non la realizzazione del modello medesimo, la quale non dipende dalla volontà dei singoli, bensì dagli equilibri di potere esistenti. Per altro verso, non si può disconoscere la necessità di operare all'interno delle strutture attuali da parte di chi è, per condizionamento storico, emarginato o negato. L'obiettivo di potere in qualche misura esprimersi ed incidere costringe la controparte, la «realtà altra», ad aderire agli schemi dati fino ad interiorizzarli. Così facendo è essa stessa che neutralizza, al proprio interno, il potenziale eversivo o le eventuali alternative, nel timore di un fallimento che precluderebbe qualunque recupero e non lascerebbe spazio a nessun ripensamento critico. Per questo le analisi di parte, elaborate cioè dai diretti interessati, non sono quasi mai più soddisfacenti delle nostre, sebbene vada loro riconosciuta una più tragica e obiettiva motivazione di fondo. Non si intende affatto, qui, negare che quando ci si ripiega a riflettere su se stessi, sulla propria cultura, sulla propria tradizione, sul proprio passato, sul proprio ritardo storico, il tutto soggettivamente vissuto, i risultati possano essere meno deludenti. Il problema però è che sono deludenti quando il discorso si fa complessivo, quando implica una capacità di risposta strategica alla propria collocazione nel contesto generale. L'incapacità di inserire innovativamente la propria esperienza soggettiva tra i fattori che determinano l'insieme, rende l'analisi — e non solo l'azione che ne può in parte derivare, una volta ammessa l'esistenza di condizionamenti esterni — ingenua ed arretrata, priva di Incisività, riflesso del rapporto gerarchico tra «centro» e «periferia». L'impasse sembra, per questo, totale: far sentire la tua propria voce significa accettare una visione del mondo che ti prevede; d'altronde, non farla sentire affatto può essere una via irrevocabilmente suicida. Diventa, allora, legittimo chiedersi se l'accesso, sia pure relativo e subordinato, alla gestione del potere meriti di essere pagato con una progressiva perdita di identità rivoluzionaria. Ed è, questo, uno di quei nodi in cui sembrano convergere fili provenienti da percorsi estremamente diversi: e viene immediato il richiamo alla questione, ampiamente dibattuta nel movimento femminista in questi anni, del rapporto con le istituzioni. Non si tratta di postulare troppo facili parallelismi e assimilazioni non sempre congrue. Soltanto in un senso molto preciso è infatti possibile accostare la riflessione sull'attuale situazione del movimento delle donne e il problema palestinese, preso come emblematico di una serie di casi analoghi: e cioè il presupposto rivoluzionario implicito nell'entrata sulla scena sia delle donne sia dei popoli che hanno subito quella particolare forma di oppressione che è stato il colonialismo. Tale presupposto doveva determinare innanzi tutto la revisione del significato da dare al termine «rivoluzione», in aderenza alle esigenze e alle esperienze storiche dei nuovi soggetti politici. In realtà ciò cui oggi si assiste è piuttosto la difficoltà di procedere in tale direzione, anche solo in termini di elaborazione teorica, o la rinuncia — mai volontaria — a porre nel proprio orizzonte ideale e di azione, almeno nei tempi brevi, le ipotesi di trasformazione, di sovvertimento dell'ordine costituito in funzione di un ordine nuovo; con il risultato o di nuove forme di estraniamento o di operazioni di compromesso che mantengano aperte le vie praticabili in direzione del potere, di questo potere. Sul senso di tale rinuncia, però, bisogna almeno interrogarsi; e a tale fine è forse meno importante esplicitare i condizionamenti oggettivi che hanno portato a questi esiti, e che si è detto essere noti, scontati e comunque prevedibili, di quanto non sia analizzare gli elementi di responsabilità soggettiva, in ciò rivendicando, anche nel fallimento, una partecipazione attiva e consapevole. 3. I palestinesi hanno dovuto combattere una prima e dura lotta per imporsi o farsi accettare come popolo, rifiutando l'etichetta di rifugiati loro imposta e negando l'interpretazione secondo la quale, per un accidente apparentemente comune nella storia, un gruppo senza identità specifica ha dovuto cedere di fronte a una forza esterna superiore. Senonchè parlare di popolo oggi, in un mondo che vede l'esplosione di tutte le forme minoritarie di cultura, etnia, lingua, religione, e che vede emergere le donne entro e tra culture, etnie, lingue e religione, è certamente più complesso che non nell'epoca cosiddetta «risorgimentale»; allora il popolo poteva anche essere considerato il luogo delle aspirazioni destinate a concretarsi nello stato-nazione, senza bisogno che esso popolo (qualora fosse esistito) si esprimesse in prima persona, perché élites e avanguardie, in forma diversa ma con atteggiamento fondamentalmente simile, si arrogavano il diritto, raramente smentito da chicchessia, di rappresentarlo. Del resto è quanto è successo agli ebrei d'Europa, assunti alla dimensione di popolo dal ristretto gruppo dei «padri fondatori» del sionismo, impregnati di ideologie «risorgimentali» tutte europee. Definirsi popolo prevede oggi una volontà collettiva coscientemente espressa di postularsi come soggetto storico a tutti gli effetti, dall'iniziativa politica alla produzione culturale. E proprio l'intervento determinante del dato soggettivo rende inadeguate le categorie attraverso cui si sono finora analizzati i problemi riguardanti le realtà extraeuropee ed ex-coloniali, in particolare la questione israelo-palestinese. In genere il processo di decolonizzazione si è impostato sul diritto dei colonizzati ad un loro stato autonomo e indipendente in loco. Con ciò la ingiustizia storica sembrava riparata, anche se lo scoppio continuo di tensioni e focolai di guerre (dal Corno d'Africa al sud-est asiatico) lascia ampiamente vedere come l'assetto previsto in sede internazionale fosse, nella migliore delle ipotesi, poco congruo con quanto i diretti interessati auspicavano o si rappresentavano in tema di autonomia, indipendenza, autoespressione. Comunque nessuna formula o modello diverso ha potuto manifestarsi (se non forse, in qualche momento discontinuo e di breve durata, ad opera della Cina). D'altronde, rimettere in discussione che cosa significhi esportare altrove lo stato così come è stato concepito in Occidente significa porre in crisi le strutture fondamentali dell'ordine costituito, non potendosi garantire né la validità assoluta delle istituzioni in cui lo stato s'incarna né la sua legittimità quando pretende di rappresentare con equità e paritariamente i suoi sudditi, o popolo, o nazione. Stando così le cose, anche per la questione palestinese l'attenzione politica è oggi concentrata sulla rivendicazione di uno stato, e tale rivendicazione diventa prioritaria per la stessa dirigenza palestinese. Pur senza voler negare l'importanza di una simile richiesta, e nella consapevolezza che solo attraverso uno stato i palestinesi possono programmare oggi un proprio inserimento nelle strutture regionali e internazionali, sì da poter difendere i loro diritti elementari, non si può non registrare come il contrappeso di tutto ciò sia la difficoltà di mantenere vivo il mito — chiamiamolo pure così — della rivoluzione. Per molti versi infatti i palestinesi, scegliendo di proporsi come popolo, si sono anche assunti il carico di rappresentare, almeno soggettivamente, un'ipotesi alternativa all'assetto vigente: alternativa che dovrebbe realizzarsi e trovare conferma nell'iter politico che essi conducono. Se si riporta, oggi e quindi con innegabile ritardo rispetto ad altre situazioni coloniali, la soluzione del loro problema a una pura questione di rappresentatività statuale, si chiudono le possibilità per una sperimentazione più avanzata in sede di rapporti politici tra chi detiene le leve del potere, a livello vuoi locale vuoi internazionale, e chi parte — non per sua scelta o colpa — da posizioni svantaggiate. Ma si chiudono altresì le occasioni per una riflessione teorica di ordine generale, dal momento che coloro che potrebbero farsi parte attiva in detta riflessione, i palestinesi appunto, nello sviluppo attuale degli eventi si trovano di fronte a un dilemma: continuare ad essere «diversi» nella misura in cui non accettano le formule entro cui viene istituzionalizzato il loro problema, optando per una soluzione suicida (almeno politicamente), oppure fare proprio il punto di vista di chi ha determinato la loro situazione, trasformando in proposta quanto, in realtà, è essenzialmente un'imposizione, sia pure mediata da meccanismi formalmente democratici. Rimane la consapevolezza, soggettiva appunto, di ciò che viene messo in atto contro di loro — il che ha certamente importanza, ma solo se non si riduce ad essere, in definitiva, la prova del fallimento subito. Infatti, si tratta pur sempre di sapere se, nel momento della presa di coscienza da parte di chi nella normale e vincente rappresentazione del reale appare da esso estraniato, si effettua una lacerazione talmente profonda con quanto si era prima della presa di coscienza da impedire una qualunque continuità non solo di azione ma di pensiero, di autoimmagine, di proiezione di sé e del proprio modo di essere. Detto con altre parole ciò rimanda al problema più generale dell'esistenza o meno di una «storia sommersa» dell'umanità che avrebbe seguito percorsi o ignorati o volutamente tenuti nell'ombra, i quali però avrebbero avuto un loro peso concreto anche nello sviluppo della «storia ufficiale». Problema tutt'altro che teorico dal momento che, in connessione ad esso, si possono immaginare diverse definizioni di protagonismo e diverse motivazioni, sempre in fatto di coscienza e di identità, per recuperare, riattivare, valorizzare o semplicemente rivendicare e vivere il patrimonio di esperienze contenuto appunto nella propria «storia sommersa». È questo un problema che — sia detto per inciso — trova precisi paralleli o— a livello di analisi, beninteso — nel dibattito della/sulla storiografia delle donne. L'etichetta del movimento che, in larga misura, ha gestito il processo di presa di coscienza e l'iniziativa politica palestinese è quella di movimento nazionale, e nel quadro delle lotte o delle rivoluzioni nazionali si pone anche quella per la liberazione della Palestina e per il diritto all'autodeterminazione dei palestinesi. Ora, termini come «nazionale» e «nazionalismo» presentano vari livelli di ambiguità, in particolare in relazione alla «questione femminile»; quasi sempre le analisi sulla condizione della donna in situazioni di sottosviluppo e nei paesi ex-coloniali sono inserite, e sottomesse, in quelle sul nazionalismo di donne. sia che provengano da osservatori uomini sia che siano opera di donne. Nel caso che stiamo esaminando, la ripresa del concetto di nazionalismo, sebbene sotto molti aspetti plausibile, determina però una parziale smentita della valenza innovativa insita nel dichiararsi (ed essere) popolo, e serve a giustificare fatti e situazioni che altrove, là dove il nazionalismo è ormai un dato assimilato e superato della identità storica, verrebbero giudicati negativamente: ne è un esempio la posizione della donna, che è ben lungi dall'essere soddisfacente nonostante il contesto «rivoluzionario». Infatti la più evidente limitazione del nazionalismo, in questo senso, sta nel rinvio della questione femminile che viene definita in termini quasi esclusivi di solidarietà nazionale, di identità nazionale, di lotta nazionale entro cui viene assimilata e inglobata. Ciò equivale a dire che ben poco si sa delle donne palestinesi, anche se la letteratura in merito non manca, perché poco le si è viste, o le si è lasciate dire, autonomamente dal problema più generale che le coinvolge in quanto palestinesi . Raramente, inoltre, ci si rende conto che ridurre la questione femminile a una questione di identità nazionale o statuale complica anche la possibilità di delineare in maniera più aderente alla realtà la stessa situazione palestinese, che risulta così stemperata in una tipologia anonima e scontata. Sulle donne si opera quindi un doppio livello d'imposizione: la loro negazione in nome della comunanza del problema da risolversi prioritariamente per potere addirittura avere nome e identità, e l'occultamento di gran parte dei dati essenziali di tale problema in nome di una via, o mediazione politica, che deve mantenersi praticabile ad ogni costo, se non si vuole scomparire per sempre dal vocabolario geografico e politico del mondo. Ne risulta che una qualunque rappresentazione della questione femminile è non solo arretrata, ma in certo senso mistificante, anche perché si sovrappone al rifiuto di evidenziare, nell'analisi della questione nazionale, per esempio, le stratificazioni di classe, col risultato di un duplice appiattimento, in cui scompaiono le differenze fra donne senza che peraltro si parli di sessualità o di divisione sessuale dei ruoli sociali e produttivi. Nulla di tutto ciò è nuovo. Tutta la storia dell'emancipazionismo femminile occidentale esemplifica i vari modi attraverso i quali una operazione analoga è stata effettuata, anche là dove non c'era nessuna questione nazionale simile a quelle esistenti nei paesi ex-coloniali. per cui, se si trattasse solo di una tappa in una linea evolutiva precostituita e ripetibile, nell'attuale situazione delle donne palestinesi non vedremmo altro che noi stesse nello specchio del passato. Si chiedono una serie di impegni e di sacrifici per il bene nazionale: fornire agli uomini che conducono la lotta armata o l'azione politica l'entroterra civile che dia loro garanzia e sicurezza; servire da tramite con le nuove generazioni per mantenere integro il patrimonio culturale, specie nei suoi aspetti quotidiani, ai fini di rafforzare la coscienza nazionale e quindi la mobilitazione di massa; e si potrebbe continuare. Ma poi ci sarebbe il risveglio, e poco importante sarebbe il fatto che la lettura politica e positiva dei ruoli femminili tradizionali che ha una sua indubbia ragion d'essere, sia oggi così diffusa, visto che prima o poi dovrebbe essere messa sotto accusa. Ma ben altra è la dinamica dei processi storici, specie nel contesto attuale. Comunque, tutto ciò ha un rapporto solo relativamente specifico con la questione palestinese, e potrebbe valere per molti dei casi in cui c'è una causa nazionale da difendere e perorare. 4. La specificità palestinese si misura invece in relazione con la specificità israeliana. Israele, nel suo porsi come stato anomalo, l'unico fondato su presupposti esclusivamente religiosi, mediati da una particolare concezione della razza, la quale è a sua volta definita in base alla maternità certa (è di diritto cittadino di Israele colui che vanta un'ascendenza materna ebraica, dice la «legge del ritorno»), sottolinea il ruolo della donna soprattutto nella sua funzione di madre, cioè di trasmettitrice di una peculiare eredità cultural-religioso-genetica. Senonchè ciò, ben lungi dal tradursi in una visione di tipo «matriarcale», serve a consolidare la struttura patriarcale dello stato israeliano. Così alla donna lo stato fa carico della stessa esistenza di Israele in due forme prioritarie: fornire i cittadini di Israele e garantire quella purezza etnica, essenziale alla definizione di Israele, entrambe le cose essendo sentite come missione sublimante il concetto stesso di Israele e determinante la sua «diversità». Il naturale risvolto di un simile fatto, che potrebbe anche essere contenuto nei limiti di un'assurda, ma innocua teorizzazione, destinata a tradursi in un mitico e utopico ideale di società e di stato, ha un duplice aspetto. Il primo riguarda Israele stesso. Essendo nella sua classe dirigente e nella sua dimensione tecnologica espressione di una realtà «occidentale», il carico che si è detto non viene assunto alla stessa stregua da tutte le donne d'Israele: alcune rifiutano l'imposizione e contestano le direttive dello stato, altre invece, subiscono la violenza programmata contro di loro. Le prime hanno le loro matrici culturali in Europa, le altre appartengono ai cosiddetti ebrei orientali, provenienti dai paesi arabi, cittadini di seconda categoria nel paese stesso che si definisce la «patria di tutti gli ebrei». Le prime, salvo rare eccezioni, colgono nella loro possibilità di avere un atteggiamento critico, o contestatario nei confronti dello stato, un segno che distingue positivamente Israele, nella sua proiezione ideale, e l'«altro», il nemico, il rivale, l'ostacolo alla realizzazione del proprio obiettivo, cioè del proprio essere «diverso». Di qui, sebbene possa sembrare paradossale (ma non lo è nel contesto specifico), Israele può vantare la sua superiorità nei confronti della società araba, e specie palestinese, anche grazie alla particolare utilizzazione che della questione femminile si riesce a fare al suo interno e nella proiezione che si riesce a trasmettere all'esterno. Poco importa poi se, anche in Israele ci siano le «altre» donne, quelle appartenenti alla cittadinanza di seconda categoria, come si diceva, che della politica israeliana sono vittime, se non alla stessa stregua, in modo alquanto analogo a quello messo in opera contro i palestinesi. E così si passa al secondo aspetto della questione «donna», che riguarda specificamente i palestinesi e che si concretizza in una precisa prassi politica tesa a deformare, a vari livelli, la visione che di loro in Israele — e nel mondo — si intende imporre. Il che significa che da un lato si nega l'esistenza dei palestinesi (basti ricordare la famosa dichiarazione di Golda Meir: non ci sono mai stati e non ci sono palestinesi), dall'altro proprio la società che più pretende di dare un ruolo centrale alle donne, attraverso il progetto politico cui esse non possono non essere funzionali, opera sulle donne il massimo del controllo e della costrizione esercitabile sul corpo sociale del paese. C'è una corresponsione puntuale tra l'avvio di una nuova fase espansionistica nella politica israeliana e una revisione delle misure sociali e giuridiche riguardanti le donne: in genere ogni forma di liberalizzazione, quale quella dell'aborto, viene rimessa in discussione, mentre, per converso lo stato potenzia con varie misure la prolificità ebraica, maggiore — come è facilmente deducibile da quanto si è detto presso le ebree orientali, e comunque a loro affidata come compito Precipuo, con facilitazioni alle famiglie numerose, o addirittura vincoIando l'attività militare delle donne al loro ruolo riproduttore. Quello stesso stato, d'altronde, penalizza la condotta che promuove nei confronti delle donne ebree, quand'essa viene seguita dalle donne arabo-palestinesi, tuttora viventi nei confini di Israele. L'interpretazione ufficiale di un simile atteggiamento è di tipo demografico: se non si mantiene costante o se non si aumenta il flusso di immigrazione in Israele, e se il tasso di incremento della popolazione stabilmente residente in Israele non si accelera, il rischio è quello di trovarsi in un rapporto sfavorito nei confronti della popolazione araba d'Israele e dei territori occupati da Israele nel '67. È di questo tenore la dichiarazione di Shimon Peres — l'uomo che la stampa internazionale presenta come l'uomo disponibile al dialogo con gli arabi al 30° congresso sionista, riportata da «Le Monde» in data 19-20 dicembre 1982. È certo motivazione che a prima vista può sembrare sensata, ma è proprio guardando la cosa un po' più da vicino che si trovano le radici più profonde della politica israeliana: preservare uno stato di ebrei e per ebrei, senza contaminazione con la popolazione autoctona, che, in funzione di ciò, deve essere mantenuta a un livello di subordinazione e di inferiorità anche numerica . A prescindere da tutte le analisi fatte al riguardo, che si sono dette arretrate sia quand'esse rappresentano un punto di vista interno, sia quando sono il risultato di una schematizzazione esterna, la lotta nazionale, al di là ancora delle vicende esteriori, si gioca così nella realtà dei fatti sul terreno che Israele ha prescelto: quello della riproduttività, cioè si gioca sulle donne . Sebbene sia un dato costante della propaganda di un qualunque movimento nazionale, specie se impegnato in una lotta di liberazione, quello di individuare tra le sue armi più efficaci la fertilità femminile, è indubbio che qui siamo di fronte a qualche cosa di diverso, di più sottilmente complesso, che si riassume nella visione razziale di Israele. Qualunque dinamica di revisione dei ruoli e delle strutture sociali ipotizzabili nel momento in cui i palestinesi consapevolmente si affermano popolo, con tutte le implicazioni fin qui accennate, si arresta di fronte a un imperativo più grave perché di importanza vitale: il fatto che sta nelle mani, o nel grembo, delle donne palestinesi la sopravvivenza stessa del popolo palestinese. Il che, se ha una valenza politica tutta particolare visto che si contrappone ad un progetto politico, quello israeliano, anch'esso particolare (se si esclude il caso sudafricano con cui presenta alcune analogie), viene poi a ribadire e a consolidare una visione tipica dell'area arabo-islamica. Se è positivo far figli, anche in termini di innovazione politica, l'oppressione a ciò legata da secoli di tradizione non viene neppure presa in considerazione proprio per il sopravvenire della nuova lettura da dare al fatto. Il che, con il paradosso e le ovvie diversità cui si è accennato, vale anche per Israele, o almeno per una larga fascia della popolazione israeliana. Una prima osservazione in proposito non è molto originale. È chiaro che in simili situazioni diventa quanto mai problematico, specie per le donne, porsi la questione della propria liberazione in modi analoghi ai nostri, facendo lo stesso uso delle categorie riguardanti il corpo e la sessualità. Infatti, è aspetto spesso denunciato da parte delle donne dei paesi in via di sviluppo questo della incongruenza tuttora esistente tra noi e loro, in termini di confronto, nel vissuto, delle situazioni socio-politiche e culturali entro cui noi e loro ci poniamo. Qui, però, si vuole evidenziare la carenza di ordine più strettamente metodologico a proposito delle implicazioni politiche derivanti da elementi e fattori sui quali il femminismo ha impostato la sua autodefinizione, proponendone un'analisi, e assumendoli come specifici dell'oppressione sulle donne. È a questo proposito che il movimento delle donne in Occidente, mentre imposta la sua autodefinizione in base a precisi elementi e fattori che assume come specifici dell'oppressione femminile in qualunque contesto, o si disinteressa di quanto avviene nelle realtà extraeuropee, o non trae, quando sia pure marginalmente se ne occupa, le implicazioni politiche derivanti dalla sua stessa analisi. E qui si deve tornare a quanto detto in apertura del discorso, la necessità di tradurre in termini di plausibilità politica e di impegno quanto viene proposto e accettato a livello di analisi. Nel caso in questione la lettura politica dei fatti, se provenisse dalle donne, o per meglio dire dal movimento delle donne, potrebbe (o dovrebbe) far emergere qualche cosa di nuovo, risultare, se non altro, più legata al «reale» nella sua doppia dimensione, esteriore e soggettiva. Inoltre, emigrazioni forzate, terrorismo di stato, repressione, tutto trova la sua giustificazione più logica — non certo più ufficiale — se si parte dalla costatazione della natura dello stato di Israele nei termini che si sono detti e della volontà dei suoi dirigenti di mantenerla e potenziarla. Ma proprio l'analisi femminista può da un lato fare emergere contraddizioni che sfuggono, denunciare aberrazioni che vengono sottaciute o che vengono viste come un'anomalia contingente e quasi casuale della politica israeliana, dall'altro riportare nella sua giusta dimensione il problema palestinese, non riducibile a una semplice causa nazionale nella misura in cui si coglie l'incidenza che esso assume in ambito sociale e il particolare tipo di ruolo che in esso coinvolge le donne. Si consideri la recente invasione del Libano e la si analizzi partendo dall'angolo visuale qui proposto: non è solo, o non è tanto, l'organizzazione militare palestinese ad essere presa di mira (inefficiente rispetto alla struttura militare israeliana); è invece il popolo palestinese nel suo insieme, ma soprattutto nella sua forza di esistere, cioè di riprodursi. Le donne sono, in questo senso, obiettivo da colpire alla stessa stregua, se non più, di un partigiano, perché le donne sono qualche cosa di più di un guerrigliero, potendo essergli madri. E infatti, il massacro nei campi è diretto contro di loro, quando ormai l'apparato militare palestinese è smembrato e ha lasciato Beirut nella sua stragrande maggioranza. È a questo punto che il femminismo, o la ricerca femminista, dovrebbe forse avviare un processo autocritico. Oltre a verificare i suoi assunti teorici in funzione dell'utilizzazione che di alcuni di essi viene fatta nei confronti di altre forme di emarginazione, di altri casi di oppressione, è sulla incapacità ad uscire dagli schemi imposti dal sistema — intendendo con questo l'Occidente così come oggi si propone, cioè maschilista — quando si tratti di realtà che non sono soggettivamente nel nostro orizzonte di esperienza, pur riguardando le donne, altre donne, che bisogna riflettere. La stessa affermazione dell'universalità della dimensione «donna» è messa in discussione quando, in un caso così appariscente come quello israelo-palestinese, essa sfugge completamente alla nostra sensibilità, ancor prima che alla nostra analisi, sebbene abbia relazione diretta con quanto è tematica nostra per eccellenza: controllo della sessualità, gestione del proprio corpo, ruolo riproduttivo, ecc. C'è naturalmente di più. Poiché ciò si traduce in dato politico senza mediazione, nella forma più brutale e diretta, com'è che proprio le donne che molto avrebbero da dire, data la particolare relazione tra politica e divisione sessuale dei ruoli, sono, proprio in questo caso, le più assenti? E infine: se, ln un caso così emblematico, tale è il ritardo delle donne o il loro mimetismo nel contesto in cui operano, come si può poi plausibilmente sostenere che si è, o si rappresenta, l'altra metà del cielo (o della terra)?
METODO E POSIZIONAMENTO. Rilettura di "Di fronte al problema palestinese: una questione di metodo", 1982
L'autrice rilegge in una chiave contemporanea il contributo di Biancamaria Scarcia Amoretti "Di fronte al problema palestinese: una questione di metodo", pubblicato in Nuova DWF (22), Islam. Tra un Mondo e l’Altro, 1982. Il testo integrale del saggio autografo di Scarcia Amoretti è consultabile online, al titolo corrispondente in questo indice.
[Entro i confini lungo i margini, in DWF (4), APPARTENENZA, 1987]
Il primo impulso induce a parlare di scelta. Una scelta determinata dalla considerazione, negativa, di un'appartenenza a istituzioni (la famiglia, quella famiglia), a luoghi e ambienti (una piccola città industriale del nord, di provincia e di confine) nel cui ambito si viveva il disagio e la costrizione. Come tutte, peraltro, o quasi. Il fatto di essere un individuo di sesso femminile sembrava motivazione remota che affiorava a livelli di consapevolezza solo quando, come ancora usava con le bambine della mia generazione — e la psicologia non era merce di consumo al minuto — mi si chiedeva, visto che ero brava a scuola: 'vorresti essere maschio?' E allora il 'no', incerto e imbarazzato, sottindeva un po' confusamente un'altra affermazione: io un po' maschio lo sono, quanto basta per fare quello che voglio'. E quel 'quanto basta' non si immaginava potesse esprimersi aldilà o al di fuori delle convenzioni date, di cui la professione era parte integrante e essenziale. Non quindi una scelta in senso proprio, non una scelta di vita, almeno. Comunque, decidere per l'orientalistica, come questa era definita da una lunga tradizione culturale di matrice coloniale, solo da poco contestata, farne la professione, non era allora cosa asettica, priva di conseguenze, anche sulla vita. Tanto per cominciare, la presenza nell'orientalistica di donne, mai di altissimo ma sempre di dignitoso livello, proponeva qualche modello. Tipologicamente due, soprattutto: quello della dionna non sposata che trasformava la sua professione nella vita tout court, e quello della donna, sposata e madre di famiglia ma emancipata, che s'era ritagliata una fetta di autonomia. Ciò contava, sebbene in entrambi i casi — non nel mio — ci fosse sempre un padre alle spalle, un padre autorevole che aveva deciso per la figlia una sorte diversa da quella delle sue coetanee, e le aveva permesso, in cambio dell'adesione alla sua illuminata volontà, di uscire dal limite, di varcare i confini stabiliti, senza perdere di rispettabilità. Infatti, per essere orientaliste non bastava appartenere a un determinato ceto sociale prevedente l'emancipazione femminile: l'orientalistica, in fondo, pretendeva più dedizione, e quindi maggiore superamento dei doveri cui una donna era chiamata, quali disponibilità di tempo e più ampia possibilità di movimenti, oltre a una buona dose di investimento di sé: indagare su una realtà altra pur senza abbandonare i propri schemi, come s'è certamente dato a lungo e in parte ancora si dà, pareva implicare un esercizio di distacco dal 'noto', dal 'familiare', dal 'rassicurante' che, per dare risultati, non poteva essere compiuto nei ritagli di tempo, come semplice attività complementare o riempitiva dei vuoti tipici di una vita di donna borghese. Anzi, proprio l'investimento di sé diventava per le donne — non solo orientaliste, certo — strumento importante di affermazione professionale nel senso che l'aderenza emotiva all'oggetto di indagine, da cui doveva scaturire un esito professionale efficace, era l'elemento che compensava le carenze di mestiere che le donne, in ogni caso, si portavano dietro. Alla tecnica meno consumata, al più fragile bagaglio culturale di partenza, alla più contenuta disponibilità — anche se enorme rispetto a quella delle altre donne —, ai condizionamenti storici, per dirla in altri termini, si rispondeva con maggiore fantasia e con un pizzico di spregiudicatezza. E così che si arrivava a volte a qualche contributo sostanziale nell'aprire vie nuove di ricerca, sebbene in genere, comunque, il prodotto si configurasse come più divulgativo, più didattico, magari più estroso, ma mai paragonabile a quello maschile. che rimaneva la meta irraggiungibile. In ogni caso il fatto non era sentito come deludente, bensì accettato come naturale. Agiva la consapevolezza che in questa maniera il territorio conquistato non sarebbe stato rivendicato, in quanto competitivo, dai 'Maestri'; agiva la sensazione che, tutto sommato, quello pagato dai maschi per il loro perfezionismo era un prezzo alto, che le donne non sembravano disposte pagare. Quando si esprimevano in merito — cosa rara ma non eccezionale — sostenevano l'esigenza di una pratica, sia pure banalmente intesa, della propria femminilità — dal fare cucina al fare figli — e questa pratica, che si poteva articolare su moduli diversi a seconda che si fossero sposate o meno, appariva a tutte quale irrinunciabile. In altri termini, la generazione di orientaliste che mi ha preceduto — senza dubbio in Italia, ma credo anche nei pochi casi europei che ho conosciuto da vicino — partiva dal presupposto, mai teorizzato, della praticabilità di un equilibrio tra ruolo tradizionale e mestiere: dove il mestiere trasformava positivamente in 'non rinuncia' il ruolo tradizionale, e il mestiere, viceversa, veniva personalizzato, come 'non negazione di sé' dal pubblico riconoscimento di una minore 'bravura' forse, che però rendeva più intuitive e a volte addirittura, per questo, più perspicaci. Il fatto di avere modelli aiutava. Portava però, anche, a far identificare la scelta professionale con una scelta di vita ricomponendosi l'antagonismo tra persona donna e persona studiosa nell'uso della professione come filtro, quasi totalizzante, ad affermare una propria identità. Appartenere poi a una professione elitaria, sentita all'esterno come astrusa, dava l'illusione di essere riuscite a sfuggire alla norma cui le altre erano costrette. Di qui scaturiva un ulteriore senso di aristocratica partecipazione a qualche cosa di esclusivo che, almeno di riflesso. rendeva visibile la vita di ognuna. All’interno del quadrato magico poteva anche ritagliarsi un terreno di confronto, che appariva reale, con le altre donne che vi avevano posto: solidarietà con e della generazione precedente, competizione con e delle coetanee. Il confronto con il 'sé' rimaneva invece nell’ombra, quasi fosse stato risolto al momento iniziatico in cui nella professione si era entrate. Sembrano fatti remoti, non di ieri. Le condizioni, oggi, si presentano così mutate da non essere nemmeno più concepibile un percorso del genere. È ben noto che i contenuti specifici della professione— e l'orientalistica non fa eccezione —si sono appiattiti su funzioni da assolvere, tutte omologabili, e che da una concezione professionale statica e ripetitiva si è passati a una concezione più dinamica e produttivistica del mestiere, qualificabile quasi esclusivamente attraverso parametri tesi a definire in termini quantitativi e concreti il profitto che ne deriva. Senonché l'occorrenza storica di essermi trovata in un simile momento di passaggio, relativamente repentino e comunque irreversibile, non è stata per me priva di conseguenze. Da un lato la tentazione di optare per l'accademia come rifiuto del nuovo ordine di cose, dall'altro un'iniziale consapevolezza del fatto che l'ineguale rapporto tra 'centro' e 'periferia' non era soltanto una categoria politologica. Comunque, più o meno in concomitanza con tale passaggio, ben altro è accaduto. Gli anni '60 registrano lo scoppio del fenomeno 'Terzo Mondo', e con esso, obiettivamente, l'orientalistica entra in crisi, come disciplina e come professione. Bisognava ricollocarsi, e per ritrovare una qualche dimensione accettabile la prima cosa da tentare era riproporre e riproporsi diversamente l'oggetto di studio. E così professione e militanza politica hanno avuto, dentro di me, una sorte comune, per un lungo periodo. anche quando non si identificavano nei fatti, e io continuavo tranquillamente ad occuparmi di Medio Evo, pur aderendo ai vari comitati di solidarietà con questo o quel movimento di liberazione, con questo o quel paese del Terzo Mondo. Ad agevolare la cosa era intervenuto anche un altro fattore, secondario sul piano generale, importante per me. Paradossalmente (o forse no?) le donne orientaliste inserite nei meccanismi universitari si andavano rivelando ben più restie a mutar rotta degli uomini, ben più ancorate alla visione 'paterna' del mondo, come se ad essa sola fosse attribuibile il merito di averle sottratte al destino comune. E quella visione andava difesa e proclamata quale positiva in senso più generale che non fosse l'ambito ristretto in cui aveva funzionato. Di colpo, quelle donne che tino ad allora erano rimaste sostanzialmente estranee ai meccanismi ideologici e quindi relativamente libere, nel senso che era difficile etichettarle o strumentalizzarle per questa o quell'operazione politica, hanno operato una scelta ideologica che ben lungi dal dare loro titolarità politica, le ha inserite in un rapporto di subordinazione — ovvio ma a lungo evitato almeno formalmente— nei confronti del potere accademico, tutto maschile, pur se non tutto insensibile ai nuovi fermenti. Il modello, magari ancora operante sul piano privato (perché non accettare uno 'status' normale se altre sono riuscite comunque a gestirsi?), non poteva non essere contestato in sede pubblica e istituzionale. La parola che esprimeva il nuovo approccio politico e professionale era 'decolonizzazione'. Le vicende personali e i fatti storici si ricomponevano in una visione d'insieme: come dire che l'equilibrio cui si è accennato si ricostituiva su basi nuove. Nel proprio quotidiano, e nel mondo, la decolonizzazione poteva anche presentarsi come rivendicazione pura, quasi utopia, con poche possibilità di realizzazione, ma che concettualmente essa fosse possibile, diventasse realtà in atto, poteva essere dimostrato nella professione, nella mia in particolare, dove era più esplicito il significato da darle, visto che, programmaticamente, proprio quella professione aveva aiutato a far si che i moduli della cultura dominante fossero assunti come unica ed esclusiva chiave di lettura di tutti fenomeni presenti o passati. Decolonizzare la propria disciplina implicava una doppia pretesa: aggiornare la metodologia d'indagine (interesse prioritario alla sovrastruttura, uso della filologia come subalterno a un'interpretazione più antropologica e ideologica dei fenomeni) e produrre un distacco etico nei confronti dei risultati dalla disciplina stessa finora ottenuti. Non un semplice ripensamento dei medesimi, ma una più globale messa in discussione del bagaglio di nozioni e di analisi lino ad allora accumulato. Ciò si postulava come compensazione di una colpa, colpa d'altri, ma sempre proveniente dal proprio mondo; colpa i cui effetti erano ancora attuali e brucianti sulla realtà altra che costituiva il proprio oggetto di studio. Si sarebbe potuti facilmente passare a dire che, nella nuova situazione storica, fare correttamente l'orientalista voleva dire schierarsi materialmente al fianco di chi la decolonizzazione stava attuando in prima persona e con mezzi violenti. Qualcuno lo ha fatto, qualcuna, anche, della mia generazione, ma non in Italia, e quasi sempre perché si era trovata in situazioni personali, di vita, particolari; al massimo in quanto 'intellettuali' nel senso generico del termine (come accadde in Francia ai tempi della guerra d’Algeria), non in termini più puntuali, di mestiere, e quindi di funzionalità. Che in Italia non sia successo, può spiegarsi in vari modi. Il più semplice è che la struttura politica nel nostro paese riusciva ancora, almeno in superficie, a captare spinte movimentistiche e con esse rientravano nelle istituzioni anche le esigenze o gli eventuali risultati che sul piano professionale alcuni tentavano di esprimere e di rappresentare come alternativi. Forse per questo, senza cessare d'essere orientalisti —al contrario, al ritorno da un lungo soggiorno in un paese del Medio Oriente e d'una intensa visita a Mosca — ci si identificava in un ambito che appariva meno limitante e ci si definiva comunisti o terzomondisti, in relazione anche a una specifica modalità di intendere la propria professione. Assumere come obiettivo l'organica e complessiva rilettura del mondo (che non bastava ad esprimere il termine 'internazionalismo', già troppo compromesso all'epoca per il deposito di strumentalizzazioni cui aveva fatto da etichetta) dava un senso di onnipotenza, per cui, una volta di più, il problema di sé come essere sessuato veniva messo in disparte a tutto vantaggio di affermazioni, in quanto totalizzanti, generiche e vuote: faccio parte dell’umanità nuova e il nuovo mondo mi appartiene, o per lo meno mi apparterrà. Essere donna appariva soltanto un vantaggio: si era simili per condizione storica l'oppressione — ai nuovi soggetti emergenti (i popoli del Terzo Mondo), più vicine per questo alla possibilità di attuare la rivoluzione. Certo, quanto vado dicendo può apparire semplicistico, e fatti, momenti storici, istituzioni meriterebbero ben altri approfondimenti. Ma, nel rievocare un percorso personale, una schematizzazione del genere non è mistificante, al massimo solo riduttiva. Rimane il fatto che quello che per me è stata la 'decolonizzazione', (per altre una qualche utopia politica da avverarsi a breve termine), ha determinato un ripensamento, anche giustificato, ma che non coglieva né la mia individualità né tanto meno la mia soggettività sessuata. Il delirio, come è noto, è durato poco. Restavano le acquisizioni positive da cui ripartire, ma che si presentavano come tessere di un mosaico la cui trama era impossibile ricostruire o anche soltanto ricordare. Rimaneva anche la nostalgia di quanto, per un attimo, aveva dato credito al senso di onnipotenza, e un sentimento di abbandono e di solitudine: non più le 'Madri', non più i 'Maestri', non più l’ 'altro' che, risolvendo i suoi problemi, anche ai miei avrebbe risposto. Forse è in questo momento, paragonando la diversità della reazione maschile (e delle istituzioni) con la propria,che ci si è chiesti se tutto non dipendesse dal fatto di essere donna, donna con tanto di nome: soggetto sessuato, appunto. Ma anche se così è stato, il percorso è continuato in maniera tortuosa. almeno fino a metà degli anni '70, quando per me si sono posti gli incontri decisivi con altre donne, con gruppi, con espressioni cioè del movimento femminista, così come allora si configurava. Tuttavia per spiegarmi la strana adesione di fondo e le riserve, una certa presa di distanza, soprattutto per quanto riguardava la mia disponibilità di tempo e l'accettazione — o meglio ancora la ricerca — di un'etichetta (appartengo a quel gruppo e non a un altro), nei confronti del movimento, devo ritornare al rapporto con la mia professione. Non a caso d'altronde, l'unica eccezione — dove cioè c'è stata più adesione e meno riserve — è stata per la sollecitata, continuativa e gratificante presenza nella redazione di Dwf, durante quasi tutto l'arco della vita della rivista; un'evidente maggiore omogeneità di linguaggi, una comprensione più diretta degli obiettivi, una sensazione di agire su un terreno noto e un'ipotesi, da verificare ma allettante, carica cioè di valenze simboliche e di riferimenti letterari familiari, se non fosse lì — o in 'cose' analoghe l'unica possibilità mia di appartenenza in termini professionali, dove la professione non fosse più solo mestiere (come già mi era capitato), non fosse mestiere + militanza (visto che il binomio era ampiamente deludente), ma fosse tutte queste cose + me, senza necessità peraltro di mutare i connotati della mia vita quotidiana, ma soltanto di reinterpretarli e quindi rivoluzionarli con un processo che si verificasse prima al mio interno, poi fuori, o magari esclusivamente dentro di me. Comunque, nell'impatto successivo alla delusione, se così si può dire, tutto ciò era confuso e inespresso. Volevo 'uscire' dalla professione e scelsi un modo forse anomalo a questo fine. Decisi di fare quello che per gli uomini o l'istituzione significava fare carriera, e mi impegnai in una volontaria e programmata accelerazione dei tempi di riuscita, Quando incontrai il movimento mi spiegai il mio atteggiamento come un'ovvia dimostrazione di insicurezza: rinunciare alla titolarità e alla credibilità scientifica, sia pure nel ristretto ambito del mondo accademico italiano, avrebbe significato un'ammissione di incapacità e nient'altro. Di qui un disagio, quasi, a parlare di me e del mio lavoro, un pudore quando, comunque, vi trovavo elementi di stimolo e in qualche misura mi ci riconoscevo; di qui una ben più reale insicurezza circa la mia posizione etica e la coerenza con stessa. Oggi interpreto la cosa altrimenti. Scoprendo che non appartenevo alla mia professione né nei termini tradizionali né in quelli riletti dopo lo choc terzomondista, l'unica via d'uscita stava nell'annullarne tutti i depositi, i fascini irrisolti, i compromessi; e il sistema più semplice era quello di accettarla fino in fondo, per rimanerne estranea. La schizofrenia implicita nella dinamica adottata è stata un fattore di salute: le regole fissate venivano postulate come esterne e quindi non coinvolgenti: l'oppressione di cui mi ero sentita vittima — come tutte — necessitava di ben altra collocazione e ripensamento che non fosse la semplice subalternità professionale: il mimetismo cui evidentemente ero costretta poteva celarmi a chi non considerassi degno di rivelare alcunché di me: la sperimentazione in un terreno squisitamente maschile qual era l'accademia, soprattutto allora, poteva consolidare la mia presuntuosa ricerca di campi e di modi 'alternativi di ricerca. Se i tempi d'attuazione del mio programma di 'escalation', o il caso, non mi avessero aiutato, probabilmente non avrei retto. Forse sono stata più fortunata di altre, oppure anche questo non è altro che una reazione e un comportamento tipici della mia generazione. Fatto sta che le cose nell'insieme sono andate così come oggi le ricostruisco, e ne ho non pochi riscontri esterni, sia nell'ambito istituzionale rispetto al quale sono 'straniera', e considerata tale, sia in relazione ai miei tentativi di fare altrimenti il mio mestiere. Se dovessi, però, sintetizzare il risultato di tutta questa parte del mio percorso professionale, direi che, prima senza saperlo, oggi con molta consapevolezza, ho acquisito una chiara dimensione del concetto di 'confine', cui, dentro di me collego l'adesione alla pratica politica del separatismo. Mi è difficile spiegarlo. Mi pare che la vita di una donna sia agibile solo se si opera per aree di realtà distinte che non si presentano come compartimenti stagno, sebbene ognuna di esse si configuri come limitata, con dei 'confini' appunto. All'interno di ogni area, o realtà, è anche possibile accedere alla visibilità esterna od ottenere risultati tali da dare sostenibilità alla vita. Eventualmente si può arrivare a un insieme, ma non esiste insieme che dia significato e collocazione alle aree specifiche. D'altronde i compromessi, o gli effetti dell'oppressione se si preferisce, sono inevitabili, ma, visto che si agisce all'interno di precisi confini, confini anche scelti, non diventano mai per se stesse — totalizzanti, tali cioè da far perdere l'identità di sé, e tanto meno capaci di offuscare la presa di coscienza di sé come essere sessuato. Un po' come dire che le procedure della vita passano attraverso una gestione dei confini, dove la tendenza a prevenirne la fissazione — che comunque avverrà — dall'esterno per renderla invece individuale, scelta, si presenta come una tappa, un esperimento, un tentativo verso un passaggio ulteriore nel quale i confini possano divenire operatività, prassi politica, anello di una rete di scambi tra donne, intuita ancor più che applicata e vissuta, ma sola tale da costituire il contesto e la finalità insieme della funzionalità stessa dei confini. E ogniqualvolta è possibile colmare lo scarto tra la propria individuale operatività e una soggettiva — sessuata e di genere — progettualità' per usare un’espressione propria di Dwf, allora si viene a formare un nesso politico che permette non di definire — almeno non per me — ma certo di postulare in ben altri termini la propria appartenenza. E proprio in relazione all'idea di 'confine', con cui mi simbolizzo difficoltà e risultati attuali, e quindi anche la mia collocazione personale nel movimento delle donne, devo ritornare al mio iter professionale. Questa volta le implicazioni sulla mia appartenenza sono ben più legate all'oggetto di indagine che non alle forme istituzionali dell'orientalistica. L'esaurimento della militanza, nei termini di adesione e delega politica a questa o quella istituzione, e il non dover più rendere conto del proprio lavoro, una volta che ero ufficialmente inserita nell'università, mi aprirono come spiragli sulla poca significatività, e impotenza a descrivere il reale, delle categorie d'analisi consolidate e sulle quali, pure, si era costruito un sapere che non poteva essere in blocco rifiutato. La constatazione poteva anche essere molto banale, se si fosse rimasti in una logica, per così dire, oggettiva: quella per cui una società va analizzata secondo parametri di classe, o meccanismi sociali, o strutture economiche. Erano tutte cose vere, ma che non dicevano se non una piccola parte di quello che avevo visto — e non riconosciuto — durante la mia formazione professionale; anzi, spesso, quelle cose non apparivano come le più importanti, se al fatto che il conoscerle poco o nulla significava in termini di prevedibilità, e che, pur conoscendole, altro era quanto quel mondo o quella specifica realtà esprimevano di sé, a volte poi in modi così vistosi (la rivoluzione iraniana) e così apparentemente assurdi e inaspettati da non poter essere tanto facilmente sottaciuti o elusi. E allora, devo dire spontaneamente, quasi come continuazione della riflessione che andavo facendo insieme e dentro Dwf, una serie di parametri mi si sono presentali capovolti — il che non vuol dire ancora in maniera corretta — partendo da una valutazione che era strumento scientifico di indagine, il riscontro, apparente o nascosto, implicito nei fenomeni studiati di una realtà comunque sessuata cui io rispondevo come soggetto sessuato. Non è certo esperienza particolare, la mia e mi sottopongo alla banalità del dirla solo per scrupolo di chiarezza nei confronti di quella che chiamo la mia collocazione, soggettivamente intesa, nel movimento, e quindi il mio problema di appartenenza. Tanto per ricominciare ancora, la conseguenza più 'logica', che sarebbe stata quella di occuparmi da orientalista di 'questione femminile', non mi è venuta spontanea. Quando l'ho fatto, nel mio atteggiamento permaneva un elemento di ambiguità più forte che non fosse di fronte ad altre tematiche, Il linguaggio mimetico — assunzione di approcci e schemi dominanti, cioè maschili — con il pretesto della tecnicità e quindi di garanzia di una maggiore obiettività, si è quasi imposto a me, senza che riuscissi a modificarlo. Paura, forse: senso di rispetto per le donne che studiavo, anche: non volontà di identificazione con l'oggetto in esame, certamente. Ma soprattutto una sostanziale mancanza di reale interesse per ciò che appare emarginato, quasi — e sono cosciente dell'assurdità della cosa — non mi appartenesse e non fosse neanche parte del mondo che è il mio oggetto di studio. Anzi, le poche volte che me ne sono occupata, ho scelto la via di parlare della segregazione delle donne musulmane come di un fenomeno che non si pone come meccanico risvolto del potere maschile, sottolineando invece la necessità di affrontare lo studio partendo da una presa d'atto dell'esistenza di un mondo doppio, costruito sulla segregazione reciproca, non complementare sul piano simbolico e ideologico, un mondo che corre su binari paralleli non destinati a incontrarsi, dove è forse più probabile che i meccanismi operanti nell'uno e nell'altro siano fortemente simili, speculari, ma non sovrapponibili. Con un'evidente esplicitazione di principio, e cioè che dell'uno, quello maschile, molto si sa, a differenza dell'altro, quello femminile; e che tutto quanto è esteriore, potere, immagine, è così esclusivamente maschile, senza implicare la negazione del femminile, da far nascere il sospetto che lo stesso mondo maschile sia stato interpretato appiattendolo entro categorie d'analisi a dir poco incongrue rispetto alla realtà che dovrebbero rappresentare. E, in questa prospettiva. non è stato tacile non cadere in un’altra possibile forma di militanza, che assumesse anche spiegazioni di miei comportamenti, o peggio mi spingesse a definirmi in relazione a fatti comunque esterni. Intendo dire che la bipartizione del mondo in un 'nord' e in un 'sud' poteva esercitare su di me fascinazioni che andassero oltre l'acquisizione di dati strutturali ineccepibili, implicassero una revisione del ruolo dell'orientalistica e, in quanto donna, mi facessero, tutto sommato, sentire, una volta di più oppressa e quindi parte del 'sud'. Che poi sia anche così, allo stato attuale delle cose poco conta (per me) nella misura in cui il bisogno di decidere della mia appartenenza mi apre come una pluralità di vie il cui esito dipende, sul piano soggettivo e politico, dal significato dato al percorrerle e non dalla tipologia della via che si intende imboccare. Niente di paragonabile alla 'testimonianza' di matrice cristiana, ma qualche cosa come una predominanza di significatività prestata all'esemplificazione che connota gli eventuali esperimenti assunti a paradigma (il lavoro di Dwf, per esempio) rispetto a una pregiudiziale scelta di campo o di modalità d'azione. E con ciò, un ritorno, una volta di più, al mio modo di intendere la politica delle donne e con le donne, e una ripresa, in altra forma, del concetto di 'confine' cui ho accennato. Non posso dire che acquisire consapevolezze circa i miei propri parametri etici (all'esterno la mia militanza 'pro-sud' continua e può anche apparire conie una semplice ripetizione di cose fatte da anche in passato) e politici (l'impossibilità di delegare, quindi di appartenere a istituzioni), mi abbia tranquillizzato in nome di una accettata, teorizzata e perseguita limitazione di settori d'intervento o di 'aree' di appartenenza. Non è così, sebbene la cosa dia un significato diverso al fatto che io mi occupi nel mestiere, come già in passato, ma indubbiamente con altro occhio, di 'eretici' e di 'oppositori' musulmani, e questo significato diverso passi attraverso una meno scontata acquisizione del senso che il monoteismo (tutto e sempre maschile) acquista in alcune culture: spia, nei casi che studio, di quella dualità del mondo (maschile e femminile) che non riesce o non vuole confrontarsi, per cui, per esempio, l'amore è sostanzialmente espresso in termini di omofilia non tanto perché sia il maschile runico attributo reale, quanto perché — non è poco, 'certo'. — esso è l'unico di cui si possa parlare impunemente, mentre l'altro amore e quindi l'altro attributo, quello femminile, riferibile a cose, persone, concetti, rimane non-detto, ma nel riscontro dei fatti, nella vita quotidiana di quel mondo, a livello non solo emotivo beninteso, appare talmente vissuto, concreto, attivo, da imporre una sospensione di giudizio sull'insieme. E allora, anche nella professione, come categoria d'analisi mi viene fatto, da qualche tempo, di usare quel concetto di 'confine' che mi ha permesso, a un certo punto, di capire alcuni miei meccanismi intimi, di vita e di pensiero. Un po' come dire, più banalmente ma con maggiore esplicitazione, che assumo la 'marginalità' come metro di valutazione di fenomeni e di realtà, oltre che della mia individuale collocazione nella rete politica tessuta dalle donne, e che la marginalità qualifica la mia appartenenza soggettiva, etica e politica, a tale rete: non totalizzante, non esclusiva, fatta di frontiere, non centrale (in opposizione al periferico, beninteso, non per quanto riguarda la mia propria vita dove invece è reale ed essenziale) comunque circoscritta e quindi agibile, capace di funzionare, almeno in linea di ipotesi e nel momento attuale, sia da definizione del territorio femminile in cui mi incontro con le altre, sia da proposta metodologica per indagare e il territorio e tue stessa al suo interno.
CONTRO I CONFINI, FUORI DAI MARGINI. Rilettura di "Entro i confini lungo i margini", 1987
L'autrice rilegge in una chiave contemporanea il contributo di Biancamaria Scarcia Amoretti "Entro i confini lungo i margini" pubblicato nel numero APPARTENENZA, DWF (4) 1987. Il testo integrale del saggio autografo di Scarcia Amoretti è consultabile online, al titolo corrispondente in questo indice.

POLIEDRA

ORIENTALISTICA E STUDI DI GENERE. Generazioni in dialogo
L'autrice ricostruisce il suo incontro con Biancamaria Scarcia Amoretti, restituendone un cammeo non tanto apologetico, quanto pregno di materialità. Un'incontro reale e un debito intellettuale.

BIBLIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA DI BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI. (26 novembre 1938 – 19 settembre 2020)
Leila Karami offre una bibliografia ragionata dedicata al lavoro di Biancamaria Scarcia Amoretti