LE PROMESSE DEI MOSTRI. UNA POLITICA RIGENERATRICE PER L’ALTERITA’ INAPPROPRIATA di Donna Haraway, DeriveApprodi, 2019

Press enter, inizia il viaggio. The Promises of the Monsters: A Rigenerative Politics for Inapropriate/d Others (1992) nella sua traduzione italiana a cura di Angela Balzano è propriamente un diario di viaggio material-semiotico nella topografia della Natura. Il saggio è in costante comunicazione con il resto della produzione dell’autrice e ci prepara alla lettura della sua ultima opera: Staying with the Trouble. Making Kin in the Chtulucene (2016), recentemente pubblicato in Italia (sono stati esclusi i capitoli 5, 6 e 7 della versione originale) dalla casa editrice Nero con il titolo: Chtulucene. Sopravvivere in un pianeta infetto, traduzione di Claudia Durasanti e Clara Cicconi.

Nel dibattito pubblico di questa seconda decade del terzo millennio cristiano, caratterizzato da slogan per “salvare” il clima, riflettere sulla costruzione della natura come alterità, è ancora evidentemente urgente. L’ossessione per la natura non è di certo un fatto nuovo per la storia del pensiero, tanto che non è mai stato possibile considerare la filosofia, la scienza e la politica slegandole da un discorso sulla natura. Il nostro viaggio tuttavia, si inoltra in un tempo e in una realtà bizzarri, alla ricerca della natura al di là delle sue rappresentazioni storiche. Il Pilgrim’s Progress che l’autrice ci invita a fare, non ha scopo meramente decostruttivo: la pars construens è subito introdotta e consiste nello «scrivere la teoria, cioè di produrre una visione informata per capire come muoversi e cosa temere nella topografia di un presente impossibile ma fin troppo reale, alla ricerca di un assente, ma forse possibile, presente alternativo» (p. 37).

L’artefattualismo dinamico/riflessivo, il tasto Enter, un nuovo paio di occhiali per mappare la realtà: più che uno strumento potremo definirlo una pratica cosciente, uno sguardo attivo su una natura che, parafrasando Simone de Beauvoir, Haraway definisce fatta. La natura è un topos, un luogo pubblico, ma anche un tropos, un luogo comune in senso retorico, un artefatto politico. Che la natura sia fatta al contempo finzione e fatto reale, significa comprenderla come prodotto articolato che emerge dell’interazione di diversi attori e attanti umani e non (p. 46). In questa produzione, vedremo nel corso dell’opera, giocano un ruolo rilevante le pratiche tecno-scientifiche e i suoi dispositivi di osservazione che attivamente tracciano i confini stabili degli oggetti di conoscenza: un dentro da decifrare/conquistare, un fuori protetto da tassonomie. Occorre però tenere presente che se qui si denuncia il razionalismo moderno con le sue pretese di universalità, ugualmente inadeguato appare il paradigma postmoderno. Se infatti è da riconoscere al postmodernismo il pregio di evidenziare la costruzione sociale della natura, tuttavia centrandosi sulla decontestualizzazione tecnologica, questo finisce col mantenere i due poli trascendentali di Natura e Società, che l’artefattualismo dinamico punta a far scomparire.

Haraway, sulla scia di Latuor, insiste infatti sull’amodernità come condizione collettiva al di là di ogni epoca storica, al quale non vi sia perciò, nessun post- da opporvi.

Che il mondo esista per noi come “natura” non può essere interpretato in chiave antropocentrica, ma è dovuto a un particolare tipo di relazione cui giungiamo attraverso il concorso di molte/i altri attrici/ori non solo organici, non solo tecnologici. L’umanità è solo uno degli agenti in questa storia di co-costruzione, né di certo possiamo considerarlo il più rilevante. Questa dimensione collettiva è un rovesciamento importante rispetto alla posizione produzionista postmoderna che rimane ancorata nel logos, elemento costitutivo e riproduttivo dell’Uomo che fa e riproduce se stesso nel mondo,  realizzando l’esperienza del soggetto.

Che gli attori siano material-semiotici significa che la loro costruzione discorsiva ha effetti sulla realtà materiale. Gli organismi, gli oggetti e la natura stessa, non preesistono quindi con i loro confini stabili, eppure la loro esistenza non è ideologica, ma si concretizza attraverso l’interazione di linguaggio e materia. Gli attuali dispositivi ottici sono operatori attivi in questo processo attraverso cui la natura assume su di sé le fantasie fallocratiche della biopolitica. Isolano, atomizzano, individualizzano, riducono la natura a risorsa, la rinchiudono in rappresentazioni romantiche dai confini estremamente reali.

A questa teoria della visione è necessario anteporne una che mostri il mondo attraverso i colori del «rosso, del verde e dell’ultravioletto, cioè, nelle prospettive di un socialismo ancora possibile, di un ambientalismo femminista-antirazzista e di una scienza a beneficio delle persone» (p. 39). Un altro uso di tali dispositivi è possibile. Perché dovremmo infatti, rinunciare alle nuove tecnologie se è possibile tradire lo scopo per cui sono state progettate sfruttando il loro potenziale sovversivo?

Haraway non intende infatti rinunciare all’immagine, la vista è qui re-inventata e convertita in funzione anti-fallologocratica: a differenza dell’Uno che riflette e riproduce se stesso,  l’artefattualismo harawayano diffrange, interferisce, genera realtà alternative/articolate. Le/gli altre/i inappropriabili, sono la problematica prole della nuova metodologia ottica. Le soggettività generate da questa interferenza sono inappropriate/bili in quanto non possono indossare né la maschera del sé, né la maschera dell’altro. Sfuggendo alla narrativa dell’identità esse/i divengono monstrum, mostri che mostrano e mostrando denunciano la faziosità del modello dualistico.

La mappa che Haraway ci consegna è un quadrato greimasiano, dove il quadrante A rappresenta lo spazio reale (Terra); il quadrante B lo spazio esterno (l’Extraterrestre); il quadrante -B lo spazio interno (il corpo biomedico) e per ultimo, -A, lo spazio virtuale (FS). Spazi interconnessi che convergono in un centro comune: il mondo, prodotto simpoietico.

Terra. Haraway racconta lo spazio planetario attraverso diverse figurazioni: la pubblicità della Gulf Oil Corporation in cui la mano candida di Jane Goodal incontra quella di un gorilla, o la foto dell’Indiano Kayapo apparsa sulla rivista Discovery. Telecamera alla mano l’indigeno si appresta a riprendere una protesta del suo popolo. In questo quadrante diventa chiaro che la narrativa sulla natura è quella dell’Uomo Bianco Occidentale. Lo scienziato, rappresentante ideale del nostro tempo, è il ventriloquo di una natura inerme e svuotata di cultura, lontana e salvifica; nelle sue mani sono concentrati enormi poteri: è lui infatti a decidere sul diritto di vita e di morte. Ma la natura, così come la biosfera amazzonica, non sono mai state vuote di cultura e le retoriche di conservazione hanno sempre avuto il gusto dell’espropriazione e dello sfruttamento. L’Indiano Kayapo non ha messo in atto nessuna violazione di confine, il suo stile di vita non è più vicino alla natura. Tali narrazione colonialiste confermano il ruolo che l’Occidente si è auto-conferito. Ciò nonostante, la tecnologia non è estranea alla natura, è semmai da intendere come un modo particolare della sua produzione che non è peculiare né di una parte del mondo, né di un’epoca storica.

Extraterrestre. Lo spazio del futuribile che conserva l’elemento salvifico, presente già nella precedente rappresentazione della natura, ma che qui non riguarda l’origine, e assume le connotazioni dell’escatologia cristiana oltre che della costruzione del mito della scienza moderna. Gli scimpanzé HAM ed Enos finiscono per diventare proiezione dell’uomo, neonati cyborg in attesa di rinascere nella matrice di spazio (in)definito nel contesto della Guerra Fredda. Allo stesso tempo le Surrogate Others e le pratiche delle Mothers and Others’ Day Action, propongono narrazioni ben differenti, in linea con quella politica dell’articolazione che l’autrice invita a costruire.

Corpo. Il focus narrativo è centrato sull’identità a partire dalla costruzione del limite: la metafora militaresca applicata al sistema immunitario definisce un dentro e un fuori del soggetto, un normale e un patologico. Come negli spazi precedenti Haraway dà esempi di pratiche che spostino il discorso dalla rappresentazione all’articolazione collettiva, dal conflitto alla rete: il lavoro di ACT UP (Aids Coalition to Unleash Power) negli anni Novanta, è lavoro grammaticale, politico/semiotico.

FantaScienza, Fatto Scientifico, ma anche Fabula Speculativa. Il piano del virtuale, la cui ontologia necessita di essere riformulata sotto la guida del Femminismo Speculativo. La fine del nostro viaggio assomiglia molto più all’inizio di una nuova avventura. La figura di Lisa Foo, la nuova Beatrice nata dalla penna di J. Varley, ci accompagna alla sua scoperta. Su di lei si sovrappongono diversi piani di potere e proprio per questo sembra esserle assegnato il compito di costruire nuove connessioni. È fin troppo facile scrivere distopie dal ventre del mostro, la fine del romanzo come le Leggi di Asimov devono essere riscritte. Il finale delle narrazioni (sempre politiche) merita di essere lasciato aperto. Sarà per questo che le Promesse dei Mostri, che può giustamente essere letto come manuale per le politiche dell’articolazione, è stato accostato, sia nella prefazione della traduttrice, che nella postfazione firmata da Antonia Ferrante, alle politiche collettive delle maree transfemministe. Il femminismo ha puntato il dito contro il rapporto complice tra scienza e società. Al transfemminismo spetta oggi il compito, parafrasando la Balzano, di tradire la scienza attraverso i suoi dispositivi e inventare una nuova prassi e una nuova teoria incarnata dalle soggettività inappropriate/bili, magari non solo umane, per costruire saperi altri, situati e articolati. Perché «se le/i Cyborg cambiano, può darsi che cambi anche il mondo» (p. 135).

Sara Puccinelli in DWF (124) STELLE SENZA CIELO. NOTE PER IL CINEMA, 2019, 4