COSA VUOLE UNA DONNA, DWF (77) 2008, 1

Editoriale

Abbiamo scelto di prendere parola da una angolazione peculiare, l’interlocuzione con la domanda – “che cosa vuole una donna?” – che si pone la rivista francese di psicoanalisi penser/rêver nell’ultimo numero dall’autunno 2007. È stata Manuela Fraire a proporre alla redazione questo spunto di partenza che, come tutti i punti di partenza, ha condotto altrove e, soprattutto, altrimenti. L’interlocuzione non è naturalmente specialistica, torna piuttosto a prendere per sé un campo del sapere che assume la differenza tra i sessi, in un modo che giudichiamo tuttora più articolato, per quanto discutibile, di altri, dalla scienza e la tecnologia alla fede e il dogma (che, anzi, questa domanda sembrano saltarla a pie’ pari). Non da ultimo, questa interlocuzione risponde alla vocazione di DWF, un luogo di pensiero che si pone sul terreno delle sollecitazioni dell’attualità, riservandosi però il tempo più lungo dell’elaborazione, quella che rende le questioni inattuali, più ampie rispetto alle scadenze del dibattito mediatico, sociale, politico.

Dice l’editoriale della rivista, l’Argument, che la domanda è una falsa domanda e che, in realtà, si tratta di chiedersi cosa vogliamo da una donna. La psicoanalisi sa del gioco dell’immaginario, delle rifrazioni speculari che si danno in una relazione, tanto più quando si tratta di aspettative, di anticipazioni dei moventi e movimenti dell’altro. Ora, cosa accade quando questa domanda se la pone una donna, da un luogo di pensiero politico come è DWF? La risposta è semplice e lineare, come è emersa dalle discussioni di redazione: una domanda del genere la si formula nel momento in cui la si è già rivolta a se stesse, ossia “cosa voglio io?”. È la versione essenziale della lunga critica alla rappresentanza/rappresentazione che il femminismo italiano ha condotto negli anni Ottanta, figlia dell’obiezione ad essere rappresentata dalle parole di un’altra. Accanto c’è la critica alle pretese universali del discorso che, come ci dice Irigaray, ha preteso che la parola dell’Uno, del Medesimo, valesse per tutti e per tutte, una critica che ritroviamo nelle parole di donne di altre culture, come quelle di Gayatri Chakravorty Spivak.

Siamo dunque nel cuore della crisi della politica occidentale. Al cuore del presente. Interrogato, il presente rivela continuità e discontinuità con i suoi antecedenti. É vero, dice ancora l’Argument, ci sono state donne come Indira Ghandi, Margaret Thatcher, Golda Meir o Elisabetta I, ma questo momento ha un suo tratto peculiare: nelle aspettative rivolte a Angela Merkel, Michelle Bachelet e Segolène Royal entra in gioco il fatto che sono donne. Questo elemento di novità è formulato in modo più stringente da Christian David nel suo Glossario, che ritiene sia diventato “ineludibile” tenere in conto la differenza sessuale. É necessario precisare questo punto, per parte nostra: la discontinuità segna un passaggio d’epoca, un passaggio simbolico. Alle figure del passato, anche recente, la domanda “cosa vuoi tu, che sei /per il fatto che sei/ una donna?” non poteva formularsi esplicitamente in questi termini perché figure d’eccezione, fuori dalla cultura circolante o, fa lo stesso, tutte interne perché tramutate in capi di stato.

Ora la domanda si pone dentro un ordine simbolico che ha prodotto, grazie al femminismo, una rete di significati, di azioni, di narrazioni, che rendono impossibile ridurre a neutro una donna. Per di più, saremmo a un passaggio d’epoca per un altro motivo, la storia sociale, di lunga durata, che da tempo ha trovato il modo per dire della presenza femminile, troverebbe sponda nella storia monumentale, quella degli stati, così che la politica istituzionale sembra recuperare il ritardo che aveva accumulato rispetto ad altri luoghi della società, cominciando a contare donne tra gli incarichi di governo. A ciò va aggiunto che siamo di fronte ad una crisi del sistema simbolico imperante, molti sono i segni dalla recessione economica – che più ad un oggettivo dato di realtà essa è dovuta ad uno scompaginamento di significati e ruoli connessi, un esempio per tutti è il cittadino ridotto a consumatore – al difficile dibattersi tra spinte riformiste e conservatrici della destra e della sinistra. Crisi che porta uomini e donne a pensare che occorre una donna per portare un ordine di qualità differente. Questa forte aspettativa di intervento taumaturgico di miracolosa efficacia è una delle eredità scomode del femminismo: l’attesa di un cambiamento in meglio da una donna perché è donna.

Ma non ha senso parlare di “novità” se non si esplicita, a cominciare da quelle stesse che sono interessate al governo della cosa pubblica, che lo scenario cambia e può cambiare soltanto se si rappresenta la relazione delle une con le altre. Una relazione forte che si fonda su una genealogia ormai salda e riconosciuta. Come è accaduto e come dimostra il contributo a questo numero di due giovani, che danno corpo alla sfida di dichiarare “scacco al re” con una parola piena. Una sfida che possono lanciare, per loro stessa ammissione, traendo spunto dagli incontri avuti in redazione con le donne “precedenti”. Come sempre accade le risposte al quesito che fa anche da titolo a questo numero sono molteplici. Una considerazione però le accomuna: quando una donna scende in politica senza mostrare la relazione che ha con un’altra e il legame tra il pensiero e l’esperienza, resta in una prospettiva incerta, innanzitutto per se stessa.

(pc, fg)RON

Indice

MATERIA

AL VOTO
D’altra parte è vero ed è nuovo, le donne tendono ad occupare le alte funzioni di potere […] La novità dell’osservazione risiede nel fatto che ci si attende oggi qualche cosa dalle donne perché sono donne (dall’ “Argument”, penser/rêver, n. 12, 2007) Mi capita sotto mano un articolo del maggior quotidiano economico italiano di gennaio 2006 dal titolo Non solo femministe: è sullo stesso tema dell’editoriale di penser/rêver dell’autunno 2007, cioè i tanti esempi nel mondo di donne in politica. La “novità” è raccontata nell’articolo per argomentare che non c’è mai stata discriminazione nei confronti delle donne nelle alte funzioni di potere, anzi che c’è un’attesa di cambiamento positivo dal fatto che sono donne… L’articolo, uno dei tanti che da qualche anno si trovano su qualunque giornale, è scritto da un giornalista, due giorni dopo una partecipatissima manifestazione delle donne a Milano contro gli attacchi alla legge 194, informazioni che il giornale riporta “di sfuggita”, a commento delle solite foto di donne famose in politica. Il femminismo, almeno come lapsus, viene nominato, quanto basta per non ridurre l’articolo a mero esempio di revisionismo storico. Non ha senso ragionare di una “novità” nell’attesa che le donne producano qualcosa di meglio della politica e della cultura dominanti senza fare riferimento al movimento politico delle donne. Senza questo presupposto non si capisce il fenomeno. Ovviamente ammettere la rilevanza della “rivoluzione femminista” può essere un’operazione inutile e scontata se non si esplicita perché è importante nel rapporto tra le donne e la politica. Per essere più precise, l’unico fatto inedito nell’attesa di un cambiamento da parte delle donne, quando c’è, è dovuto al riconoscimento, simbolico e materiale, che una donna fa ad un’altra donna. In tutti gli altri casi, le donne “alla presidenza” hanno straordinariamente, o drammaticamente, ancora sempre lo stesso significato: le si chiama quando c’è qualcosa da salvare – il pianeta, la politica, la salute, il tessuto sociale, la vita dopo la guerra, i partiti, la fede – purché salvino senza perdita, purché curino dalla perdita, purché raccontino il prima o il dopo della perdita. Le si chiama in virtù del loro sapere antico sulla vita e la morte, come le donne oltre la guerra e oltre la legge in alcune poesie di Wislawa Szymborska.
ALMENO DUE PRATICHE
Questo passaggio d’epoca ci vede coinvolte, talora malgrado noi stesse, su diversi piani temporali, l’emancipazione trionfante, la differenza accolta, il futuro arcaico e il non tempo dell’indifferenza dei sessi. Non c’è settimana, ma forse neanche giorno, che sui media non appaia qualche articolo o servizio sulle donne – dalle imprenditrici italiane alle mediche afghane. I leader dei partiti si fanno un vanto, perlomeno retorico-elettorale, di includere donne di provata competenza ma anche “immaginette” della cosiddetta società civile o, dal sindacato, arrivano a scendere in piazza per l’otto marzo (prendendo loro la parola). Il tempo del futuro arcaico: annusato il vento, in una inversione da futuro- passato, degna degli horror fantascientifici di P.K. Dick, riparano alla fragilità postpatriarcale del loro ego cibandosi di viscere femminili. Lontano questo scenario da quello presentato da penser/rêver, che sembra piuttosto orientato dalla temperie francese ugualitarista e indifferenzialista. Il discorso bucato, non saturo, presentato nella rivista francese in forma di Glossario, dello psicoanalista Christian David, offre alcuni spunti per articolare più finemente, in chiaroscuro, questo passaggio. Per giunta, lo scambio tra la redazione e le tre psicoanaliste, Danielle Margueritat, Nathalie Zaltzman e Michela Gribinski – che va sotto il titolo La louche et le corbillon (Il mestolo e il cesto) – fa cortocircuito con il pensiero politico della differenza e porta a nominare due pratiche di presenza femminile efficace.
IDENTIFICAZIONE DI UN PENSIERO, DI UN DESIDERIO
Comincerei dalla domanda che dà il titolo al numero 12 di penser/rêver – “Cosa vuole una donna?” – e che è stata sollecitata da un fatto di attualità, la campagna elettorale di Ségolène Royal per le presidenziali. Mi chiedo però, più radicalmente, se per degli psicoanalisti – e per la psicoanalisi che da sempre non si fa interpellare dalla contingenza – la domanda che Freud formulò a proposito della sessualità femminile, abbia oggi lo stesso significato. Penser/rêver nel suo insieme suggerisce che la domanda di allora vada reinterpretata alla luce, aggiungo io, di ciò che Elisabeth Roudinesco sintetizza molto efficacemente così: “il femminile, in tutte le sue accezioni, è stato la posta principale di un’espansione della psicoanalisi che ha l’aria di una disfatta dell’imago paterna sullo sfondo del declino della famiglia patriarcale” (Roudinesco 2000). Al punto da aver alimentato l’ipotesi che la teoria sessuale relativa al femminile sia stata una mossa controfobica di Freud di fronte al crollo dell’imago paterna, che già si annunciava all’inizio del secolo scorso. Non il padre della preistoria, non il padre simbolico cioè, bensì il padre storico, che non si è più potuto poggiare sull’uomo che abiterà il Novecento. Una crisi che Jacques Lacan aveva individuato fin dai tempi de I complessi familiari (Lacan 2005). Ho scelto di “entrare” nel dialogo-intervista, La louche et le corbillon, che conclude la parte monografica del numero, di cui sono protagoniste Danielle Margueritat, Nathalie Zaltzman e Michela Gribinski. Il punto di vista maschile è rappresentato da tre uomini riuniti sotto la sigla della redazione, p/r, mentre le psicoanaliste parlano “una ad una”, così permettendo al lettore di cogliere le differenze significative che ci sono tra loro. L’interrogativo che si delinea nelle loro repliche individua alcune questioni cardine che attraversano i fatti dell’attualità e rappresentano altrettante piste, condizioni o intoppi, perché una donna ai vertici della politica possa esprimere una strategia che sia informata del fatto che a pensarla è una donna.
SCACCO AL RE
Ci siamo avvicinate a DWF grazie alla relazione con alcune donne che da parecchi anni lavorano per la rivista. Annadebora grazie a Federica Giardini cui ha rivolto la richiesta di stage in redazione per il Master “esperti in pari opportunità. Women’s studies e identità di genere”, e Rachele, grazie a Paola Bono, relatrice della sua tesi di laurea al DAMS, in seguito alla proposta di occuparsi del restyling e della gestione del sito di DWF. Queste relazioni si sono poi evolute in un rapporto di più ampio respiro con le altre della redazione, tanto che da qualche tempo partecipiamo alle riunioni, godendo della linfa vitale che caratterizza questo particolare periodo della rivista. Cosa vuole una donna è diventato: cosa vuole una donna al potere? E cosa vuole/desidera una donna da una donna al potere? Siamo partite dalla discussione avvenuta in redazione e abbiamo (ri)discusso i nuclei tematici venuti fuori, ovvero di relazioni tra donne che spesso non passano come dovrebbero, di vuoto di regole che facilita la presa di posizione e l’ autorità femminili, di una radicalità dei progetti politici inversamente proporzionale alla scalata al potere, di presenza perturbante delle donne nelle posizioni chiave della politica, di una frequente tendenza femminile ad autosminuirsi. Ci siamo chieste quali potessero essere i potenziali limiti per una donna che intraprende oggi la carriera politica e i conseguenti vincoli di riconoscimento/proiezione di un’eventuale elettrice che rispetto alla politica si pone alcune questioni. Ci siamo interrogate dell’eventuale influenza dei media nel veicolare l’immagine dello “stereotipo” femminile e dell’ importanza dell’etica del sé per resistere alle “tacite regole” del potere.Abbiamo inoltre dato priorità ad alcuni elementi della rivista francese che ci sono parsi rilevanti per mettere in luce il nostro punto di vista in relazione alla situazione politica attuale. Un lungo dibattito insomma a partire da quelle che ci sono sembrate delle questioni importanti per poter “mettere in gioco” le nostre riflessioni rispetto alle fatidiche domande. Abbiamo voluto concludere con dei suggerimenti per la lettura, una sorta di memorandum per noi stesse e per chi avesse interesse ad approfondire il tema, una sitografia, consultabile on-line con i link che nel corso della discussione e della scrittura abbiamo consultato in rete e una brevissima antologia di citazioni, “Cosa dicono le donne di una donna al potere”, scelte per evidenziare come nella comunicazione mediatica si preferisca spesso esaltare l’immagine piuttosto che le idee di una donna in politica.
NON FIDARSI E' MALE, APPARTENERSI E' MEGLIO
Sentiamo dire spesso che un auspicato maggior impegno di donne nella politica di Palazzo, potrebbe servire a portare ordine, di qualità differente, nel disordine immane in cui essa è precipitata a causa del fatto che gli uomini non hanno acquisito sufficiente consapevolezza del limite. Più donne infilate nei meccanismi della rappresentanza risponderebbero dunque ad un desiderio d’ordine che abita entrambi i sessi in un momento di crisi drammatica della politica, e sarebbe una panacea di salvezza, un intervento taumaturgico di miracolosa efficacia. Una efficacia necessariamente miracolosa nel suo – impossibile – “rimettere le cose a posto”, perché poi gli uomini, e non solo loro, sanno bene che le donne non sono in grado di garantire i voti delle elettrici, non rientrano in alcun modo nella logica della rappresentanza. C’è però qualcosa che tuttora interroga il femminismo dal suo interno: il rapporto tra libertà femminile e potere politico istituzionale ad ampio spettro. Esso risulta ancora pericolosamente ottuso all’interpretazione. Ed è per questo che ha senso chiedersi nuovamente: cosa vuole una donna da un’altra donna? Cosa fa ostacolo a preferire una propria simile per la guida di un Paese o di un partito? Le donne che vanno a votare, pur riservando ampi riconoscimenti alle politiche emancipazioniste non sembrano ritenere (o non vogliono, viene da sperare) che, per varare politiche migliorative della qualità della vita, sia essenziale la presenza e la competenza delle donne. Sotto sotto, è come se sapessero di una certa inaffidabilità femminile quando si va troppo prossime ai modi strumentali degli uomini. Non si fidano. Tanto più della politica della rappresentanza. Riemerge forse, nel segreto dell’urna, una diffidenza ancestrale nei confronti della madre? È probabile. Il pensarsi come nate sotto un cavolo sembrerebbe più facile per le donne che per gli uomini paradossalmente. E infatti gli uomini mettono la Madre sull’altare il più delle volte, mentre le donne sempre ricominciano da capo nella sua inesauribile riscoperta.
HORROR FILM E ESTETICA MASOCHISTICA. Piacere visivo e dinamiche dell’identificazione
Il saggio qui pubblicato è tratto dalla tesi di Laurea Magistrale “Forme del masochismo dal melodramma all’action film”, elaborata sotto la mia supervisione da Antonietta Buonauro presso l’Università di Roma Tre e discussa nel novembre 2007. La tesi affronta un argomento particolarmente importante per gli studi di genere in campo cinematografico poiché il masochismo e le sue dinamiche hanno costituito una delle linee di ricerca più significative nel costruire un’ipotesi alternativa al modello teorizzato da Laura Mulvey nel suo saggio fondativo “Piacere visivo e cinema narrativo”. Se Mulvey vede nel sadismo la dinamica psichica fondamentale nel definire il rapporto di subordinazione del femminile al maschile – dinamica che nel cinema ha gli esempi più alti nell’opera di Hitchcock – il masochismo vede proprio un rovesciamento di tale rapporto. In effetti, il masochismo – nella versione proposta da Gilles Deleuze in Il freddo e il crudele – è caratterizzato da una reversibilità delle posizioni di genere, prevede lo scambio continuo dei ruoli di potere: in ultima analisi esso mette in scena questioni riguardanti la bisessualità. Ma il masochismo è anche un’estetica particolare, in quanto presuppone strutture narrative circolari e ripetitive e attiva un regime visivo sensuale. Partendo da questi presupposti, nella sua tesi Antonella ha indagato in modo brillante le diverse teorie psicoanalitiche sul masochismo (Freud, Deleuze, Silverman, ecc.) per passare poi a studiare le molteplici forme del masochismo cinematografico: in questo ambito ha analizzato generi ampiamente studiati, come il melodramma, e generi meno indagati come il film d’azione e l’horror. Proprio su quest’ultimo si incentra il lavoro proposto qui, in quanto – all’interno di una ricerca che complessivamente presenta molti elementi di originalità – è appunto l’analisi del film horror che costituisce uno degli elementi più innovativi della bella tesi di Antonella. (Veronica Pravadelli).
DENARO O MONETA? A proposito di un’antica controversia politica e della sua attualità
La parola denaro è al centro di ogni discorso pubblico sulla politica sia in forma diretta – i costi dell’attività dei partiti e dei loro professionisti – sia in forma indiretta – gli interventi nella società a partire dall’uso dell’araba fenice del “tesoretto” e della riforma del welfare state. È una parola pesante, abusata e invasiva come tutte quelle destinate a tagliare e ricucire le trame discorsive dell’opinione pubblica imponendo un ordine urgente ed eterodiretto al dibattito della politica istituzionale in Italia. Sembra dare ragione a Gertrude Stein quando afferma ironicamente, nella sua Storia geografica dell’America, che è “la sola cosa del governo e del governare che sia interessante” (Stein 1980, p. 141 ). Oggi, dunque, è una parola che evoca gli scricchiolii di un edificio – la politica mista novecentesca e le sue pratiche – seriamente lesionato. Tuttavia, quando ho deciso di proporla come tema del Seminario Estivo Residenziale della Società Italiana delle Letterate del 2007, non tanto l’eco lontana di quei rumori mi ha persuaso a suggerirne la proposta, quanto la pervasività degli usi del denaro e della sua ricerca spasmodica finalizzata a realizzare i progetti politici che tante donne – a me vicine o lontanissime per esperienza e cultura e pratica femminista – intraprendono ovunque. Sono partita, infatti, dalla constatazione che nel corso dei sette anni in cui ho partecipato all’organizzazione del seminario estivo (con Paola Bono, Laura Fortini, Annamaria Crispino e Giuliana Misserville, poi anche con Monica Luongo e Bia Sarasini) il denaro è stato sempre più chiaramente il problema con il quale ci siamo misurate per farlo diventare quel laboratorio politico di confronto tra esperienze delle donne in Italia che è oggi. La questione del denaro si nasconde dietro le quote di partecipazione delle iscritte, il nostro lavoro di organizzazione, le elaborazioni intellettuali delle relatrici di scenario, tra materiali bibliografici selezionati e libri pubblicati, tra borse di partecipazione di università e contributi di enti locali.

SELECTA

Recensioni e schede di De Pascalis/PRAVADELLI, Muzio/JANINE e VAHARAM ALTOUNIAN, Fortini/RONCHETTI, SAPEGNO, Voci/CONGRESSO INTERNAZIONALE UNIVERSITA' DI PAVIA