STORIA DELLE DONNE NELL’ITALIA CONTEMPORANEA Silvia Salvatici (a cura di), Roma, Carocci, 2022

Storia delle donne nell’Italia contemporanea è un volume collettaneo curato da Silvia Salvatici ed edito da Carocci dal quale traspare nitidamente l’impronta culturale (di genere e femminista) della Società delle Storiche (SIS). Come emerge dai ringraziamenti, il testo deve molto al dibattito passato e presente all’interno dell’associazione, di cui molte autrici sono membri. I saggi raccolti, scrive Salvatici, “dialogano con la storiografia internazionale, rielaborano gli studi prodotti sull’Italia, accolgono alcune delle sollecitazioni emerse con l’affermarsi della global history e le incrociano con la categoria di genere per rileggere la storia nazionale” (p. 14).

A questo obiettivo se ne aggiunge un altro, quello cioè di suggerire una ri-periodizzazione della storia italiana -e non solo- attraverso l’utilizzo della categoria del genere. Un obiettivo che emerge dalla scelta di adottare una prospettiva di lungo periodo per tutti i temi trattati e dalla decisione di introdurre ciascuno di essi con accenni all’attualità.

Il volume si configura, così, tanto come un manuale di sintesi di storia contemporanea scritto più mani che come utile punto di riferimento per l’avvio di nuove ricerche.

Il saggio di apertura di Catia Papa analizza come l’idea di nazione, impero e colonialismo abbiano forgiato o contribuito a rafforzare gli stereotipi di genere e come le organizzazioni di attiviste e le intellettuali li abbiano accolti o messi in discussione dall’Unità sino al fascismo, passando per l’imperialismo di età liberale sino all’occupazione dell’Etiopia del regime di Mussolini.

Aspetto strettamente connesso alla costruzione della nazione e all’inclusione all’interno del “corpo politico” delle donne è quello della cittadinanza e del significato attribuitole, che Vinzia Fiorino affronta sottolineando l’originale distinzione e il successivo incontro sul terreno dei diritti individuali nel secondo dopoguerra.  È bene sottolineare”, scrive “come la costruzione dello stato nazionale e la nuova cittadinanza intesa come una nuova comunità politica, segnino una più precisa esclusione delle donne rispetto al passato” (59), esclusione che passa, nella costruzione dell’unità nazionale, per la cittadinanza “derivata” dal marito, un istituto che accomuna diversi contesti nazionali europei nonché, anche se non appare nel saggio, quello della “coverture” statunitense, la cui messa in discussione risale alla fine del 1800.

L’ottenimento della cittadinanza formale, frutto delle lotte politiche delle donne, crea un nesso con il saggio di Paola Stelliferi sui movimenti femministi, che fornisce una serie di nodi interpretativi sui  sui quali focalizzare l’attenzione per comprenderne l’evoluzione dal 1800 agli anni Ottanta del secolo successivo. Più che altrove, è nell’analisi del femminismo degli anni Settanta del Novecento -in una fase, del resto, caratterizzata dal rilancio della “società civile globale” e dell’emergere della frattura tra Nord e Sud globali- che viene messo in risalto il carattere transnazionale del fenomeno.

Il contributo di Silvia Salvatici sull’impatto delle guerre mondiali sulle donne ricompone piani generalmente considerati separati: il fronte di combattimento appannaggio maschile e il fronte interno, occupato perlopiù da donne e bambini. Spazi solo apparentemente distanti, se considerati i fenomeni della “profuganza” come conseguenza delle operazioni belliche e dello spostamento dei confini, gli stupri subiti dalle donne da parte degli eserciti occupanti, le stragi di guerra,  le cui vittime sono stati in diversi casi proprio le donne e i bambini, così come il ruolo svolto dalle donne nei luoghi di lavoro lasciati dagli uomini partiti per il fronte. Quest’ultimo, se riletto alla luce dei nodi sollevati dal saggio, assume una nuova dimensione rispetto alla dinamica emancipazione nella guerra-riflusso nel dopoguerra, quella cioè di presentarsi come un “complesso intreccio fra gli arretramenti e le aperture di nuovi spazi, un intreccio solo apparentemente paradossale, che ribadisce l’importanza della categoria di genere per rileggere le guerre mondiali nella storia del Novecento” (133).

La ricomposizione degli spazi del domestico e non è il nodo principale affrontato nel saggio di Laura Schettini, che analizza la percezione e la risposta alle violenze di genere nella storia legislativa e culturale d’Italia. Un certo grado di violenza all’interno della famiglia patriarcale, unità di base per la costruzione della nazione e per una gestione “privata” e maschile della morale pubblica per ripristinare la pubblica virtù femminile, è un elemento ravvisabile sul piano legislativo dall’approvazione del cosiddetto Codice del 1865 sino al Codice Rocco del 1942. Ripercorrere le tappe che da allora hanno portato, nel non molto lontano 1981, all’eliminazione del “delitto d’onore” è un esercizio utile non solo per individuare i cambiamenti culturali che hanno accompagnato questi processi ma anche per affrontare un tema, quello delle violenze di genere, di drammatica attualità.

Ancora a cavallo tra domestico e pubblico i saggi di Alessandra Pescarolo e Enrica Asquier dedicati al tema del lavoro in tutte le sue sfaccettature, quello casalingo e non, con l’accento sulla sovrapposizione tra riconoscimento del lavoro e quello della funzione sociale dell’individuo sollevato da Pescarolo e il problema della dimensione professionale del lavoro domestico, la cui visibilità, scrive Asquier, è stata favorita dall’avvento della modernità anche grazie all’attività delle femministe ma che al contempo rischia di cristallizzare lo stereotipo di genere in base al quale le donne avrebbero un’attitudine “naturale” al lavoro di cura (210).

Nodo problematico, quest’ultimo, centrale anche nel saggio sulle politiche di sostegno alla maternità di Elisabetta Vezzosi, che affronta il tema tenendo insieme il piano nazionale e l’agenda avanzata all’interno delle istituzioni internazionali come l’International Labour Organization (ILO) e l’Unione Europea e sottolinea come il tema sia stato declinato solo in tempi molto recenti, almeno in Italia, per rispondere a una concezione di “genitorialità” condivisa piuttosto che di maternità. Lo sguardo globale adottato nel saggio, inoltre, pone in una luce diversa e per certi aspetti sorprendente la pur tardiva -e limitata- legislazione italiana e mette in evidenza le enormi disparità esistenti tra Nord e Sud del mondo.

Di confini, questa volta statali, si occupa anche Alessandra Gissi attraverso l’analisi delle migrazioni femminili.  Gissi propone di ripensare la stessa definizione del fenomeno migratorio, qui presentato come processo che coinvolge sia le “persone in movimento”, indipendentemente dal motivo che le spinge a farlo, che coloro che rimangono. Così, studiare la presenza delle donne all’interno delle migrazioni serve a leggere “i cambiamenti macro e micro economici, i modelli di welfare, quelli sociali, culturali e di mentalità, le ristrutturazioni del mercato del lavoro, la relazione tra individui e istituzioni, i ruoli familiari e domestici, la dinamica tra coercizione e autonomia dei soggetti, le continue ri-significazioni dei concetti di “naturale”, “tradizionale”, le relazioni tra classi e generi, le dinamiche di definizione dell’alterità” (257). A questo si potrebbe aggiungere anche il piano legislativo, che spesso ha significato per le donne ostacoli diversi -si pensi al tema della cittadinanza- rispetto a quelli maschili all’interno del contesto di arrivo.

Il contributo di Emmanuel Betta su corpi e culture della sessualità riprende il concetto di biopolitica foucaldiano per rileggere la storia d’Italia, analizzando il corpo femminile come terreno di scontro politico. Inoltre, individua negli anni Ottanta del Novecento il momento in cui il rapporto tra scienza, corpo e sessualità produce una critica alla “concezione binaria ed eteronormativa della sessualità” (281) e opera una “denaturalizzazione della sessualità”. Un processo non lineare che continua a cavallo degli anni Novanta e degli anni Duemila “con un quadro politico e culturale che presentava aspetti contradditori” (282) che caratterizzano del resto il presente, come dimostra l’ampio dibattito, in Italia e in molti altri paesi, sulla categoria genere e la sua volgarizzazione a uso polemico.

A chiudere il volume è il saggio di Anna Scattigno sull’attivismo delle donne cattoliche che attraversa la storia d’Italia del Novecento. Il cattolicesimo, ricorda l’autrice, è un tratto distintivo e fondamentale della società italiana, dei partiti di massa nonché di note organizzazioni di donne del secondo dopoguerra come il Centro italiano femminile (Cif). Analizzare il ruolo della fede cattolica delle donne sul lungo periodo pone in rilievo l’importanza costitutiva che essa ha avuto per l’attivismo politico in diverse fasi storiche -ad esempio, come illustra il saggio pienamente, durante la Resistenza- e invita a riflettere sul complicato dibattito intellettuale che ha portato alla luce il nesso tra questa, le rivendicazioni femministe e il processo di secolarizzazione che ha caratterizzato l’Italia a partire dagli anni Settanta del Novecento.

La ricchezza dei contributi e dei temi trattati restituisce a lettori e lettrici un volume che supera sia la pur valida narrazione dell’agency delle donne all’interno della storia italiana e di altri contesti che quella dell’impatto che alcuni eventi storici periodizzanti- come le guerre- hanno avuto sulle donne italiane. Ponendo la categoria di genere al centro della narrazione, i saggi che compongono il libro la problematizzano e mettono in risalto la necessità di tenerne conto pienamente per comprendere l’orientamento dei processi storici analizzati.

Storia delle donne nell’Italia contemporanea si presta a essere adottato come manuale di studio per tutti i corsi universitari di Storia contemporanea ma si rivolge anche a un pubblico più ampio di lettrici e lettori interessati a studiare il passato e ad avere una visione più complessa del presente.

Alice Ciulla in Non ho l’età. Frequentare la vecchiaia, DWF (134-135), 2022, 2-3