LA SOCIETA’ DELLA PRESTAZIONE di Federico Chicchi e Anna Simone, Ediesse, 2017

Lavorare sempre è quello che fa il soggetto prestazionale al centro di una società che erode i legami e mette tutto in relazione alla produzione di valore e al profitto. Ma quel sempre non è solo misura temporale, è la dismisura della capacità di cattura che agisce il mercato su tutte le forme di organizzazione sociale e istituzionale, pretendendo di essere la nuova ragione del mondo.

Anna Simone e Federico Chicchi mostrano come questo processo si è naturalizzato sotto i nostri occhi, anzi, di più, dentro di noi. La prestazione è diventata la cifra di una società in cui tutto dell’umano e del vivente è ricompreso nel discorso economico, e il management la forma mentis con cui i singoli pensano a se stessi, incapaci di prendere le distanze da un pensiero – quello neoliberale – che si è mimetizzato con la vita. E’ una lunga storia, individuata già da Marcuse, che aveva visto il piegarsi dell’eros alla società del lavoro e dei consumi e che è citato da Simone e Chicchi per esser stato fra i primi a nominare il concetto di prestazione. Il libro prende le mosse da Beck, altro anticipatore del concetto, che ne La società del rischio mette bene in evidenza come una nuova immediatezza nel rapporto fra individuo e società rende interscambiabili crisi sociali e crisi individuali, rendendo invisibili i nessi che legano gli individui al loro contesto e alla loro storia. La società di classe sparisce e all’ideale di uguaglianza si sostituisce quello più triste della sicurezza in un percorso che ha presto smarrito ipotesi di contenimento degli effetti distruttivi della globalizzazione e si è svuotata di ogni forma di regolazione e di misura. Tutto questo, ed è qui che il discorso si rovescia in maniera “positiva”, diventa la sollecitazione costante e capillare rivolta a ogni singolo a “essere se stesso”, a esprimersi, a trovare la chiave del proprio potenziale. Ehrenberg, su cui ruota parte dell’elaborazione, aveva già mostrato con i suoi lavori degli anni ’90 (il più famoso, tradotto e conosciutissimo anche in Italia, La fatica di essere se stessi) l’accentuarsi di una norma “positiva” come l’autonomia, che proprio divenendo norma assume tratti paradossali trasformandosi nella pretesa sociale di individui in grado di provvedere a se stessi, di raccogliere opportunità, reali o fantomatiche, per costruire un progetto di vita all’altezza dei propri desideri Individui pensati come i principali, forse gli unici protagonisti, di trame esistenziali da costruire a tavolino attraverso un attento management di sé e delle proprie risorse. Un’esperienza del vivere che affatica fino alla depressione, quella malattia del non sentirsi mai adeguati che si è diffusa come un’epidemia nelle nostre società, base di fatto di consumo di sostanze, lecite e illecite, cibo ed eccessi vari. Quello che mettono bene in evidenza Federico Chicchi e Anna Simone è il dilagare di un “discorso” (Foucault) che produce “sé senza società e senza inconscio”, soggetti apparentemente leggeri ma che soffrono dei contraccolpi dell’impresa del dover inventare, vendere, dirigere, gestire se stessi e la loro vita, come i dispositivi prestazionali – e i tanti manuali di management presi in rassegna da Anna Simone – suggeriscono e impongono di fare. Quello che emerge è “una sorta di nuova umanità al lavoro, pensata e programmata sui criteri di un’efficienza che non è più in grado di cogliere i limiti dell’umano” (p.149)

Il libro nasce da un dialogo e da un’amicizia fra due studios* i cui lavori dialogano con la politica di movimento e con la psicanalisi, intesa come pensiero critico. Ed è proprio il posizionamento dei due autor* e il presupposto dialogico di questa scrittura a spingere il discorso, nell’ultimo capitolo, verso “tre figure per resistere: la misura, il desiderio e l’arte”. La misura di un reddito di base, strumento in grado di riportare una misura di giustizia nella dismisura del mercato; il desiderio come campo di battaglia fra il limite rimosso nella società della prestazione e la capacità di riconoscerlo e metterlo in relazione con sé e gli altri; e arte come spazio aperto, ancora non pensato, spostamento verso l’inatteso. Di queste tre figure dense, piene di possibilità e già praticate pur fra mille contraddizioni nel presente, avremmo voluto saperne di più. C’è solo da sperare che con queste tre figure cominci e non finisca il prossimo dialogo fra i due autor*.

Sandra Burchi in DWF (114) Escursioni. Scritti femministi oltre confine, 2, 2017