Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ida Dominijanni, Ediesse, 2014

Le vicende giudiziare di Berlusconi sono ancora materia di attualità eppure si fa fatica a tornare con la mente agli anni dei suoi governi e dei relativi sexgate.

Tornano alla mente le cronace di  indagini, discorsi, dichiarazioni, intercettazioni, episodi e storie indigeste che la memoria pubblica ha digerito velocemente, cercando di consegnarle al dimenticatoio prima di averle capite.

Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi Ida Dominijanni si è presa la responsabilità di fare ordine tra quei fatti e recuperarne il senso, quello che certo la confusione creatasi fra i tanti piani della faccenda non è riuscita a far emergere. Se lo si vuole ritrovare, quei piani occorre allinearli: pubblico e privato, morale e politica, soggettivamente lecito e penalmente rilevante.

Prezioso perché complesso il libro di Dominijanni intreccia – oltre alle coppie cui abbiamo appena accennato – altri due livelli senza vedersi costretta a separarli mai: quello della cronaca politica (mostrando le insufficienze e le incomprensioni della sua traduzione mediatica) e quello di un’interpretazione serrata capace d’inquadrare la cosiddetta « anomalia italiana » all’interno delle trasformazioni antropologico-politiche che attraversano e minacciano tutte le nostre democrazie.

Tentando l’impresa «incerta e rischiosa di prendere sul serio una materia trash» come quella delle avventure sessuali dell’ex-premier, l’autrice si avventura nella più ampia impresa di «sciogliere i nodi» che hanno impedito al discorso pubblico di interpretare adeguatamente la storia recentissima, e lo fa operando una serie di rovesciamenti teorici.

Primo fra tutti quello sulla  «libertà». Terreno prezioso perché fondante del pensiero politico moderno, secondo Domimjanni è stato difeso da destra e da sinistra da posizioni arretrate. Il discorso pubblico, tanto più il discorso mainstream, non ha ancora assimilato alcune importanti letture teoriche, né quella di Arendt che è stata in grado di mostrare come la libertà – per enfasi sul libero arbitrio – può trasformarsi nel suo contrario, nella volontà di potenza che caratterizza i totalitarismi; né quella di Foucault  che già alla fine degli anni Settanta aveva capito che all’interno delle democrazie occidentali aveva preso a funzionare un’idea di libertà radicalmente diversa dal laissez faire delle ideologie liberali, un dispositivo di disciplinamento capace di far coincidere le istanze di governanti e governati. È l’intuizione della biopolitica, paradigma che Dominijanni usa per costruire le analisi del suo libro. In un sistema che produce «discorso», piuttosto che limitare desideri e istanze, la libertà cambia di segno, perde la sua dimensione relazionale, conflittuale e politica per assumere paradossalmente una valenza normativa, diventa esercizio obbligato e autodisciplinante di affermazione individuale e di adesione partecipata. La ricostruzione che l’autrice compie del lungo e faticoso ping-pong giocato da destra e da sinistra per catalogare i comportamenti e gli eccessi dell’ex-leader nell’alveo della libera scelta, della morale personale e della separazione fra  vita privata e vita pubblica che andrebbe rispettato ad oltranza, serve a mostrare l’inattualità d’una chiave interpretativa la quale considera la libertà come ambito da limitare  o da rispettare e non quello che è diventata  nel tardo capitalismo, cioè  norma, prima regola cui tener fede nel rispetto del duplice imperativo (incarnato da Berlusconi in maniera esemplare) del produrre-godere. Dentro questa lettura che prende sul serio i cambiamenti profondi della società (rivoluzione antropologica compresa), l’uso del potere del Cavaliere diventa caso altrettanto esemplare, forse estremo, dell’egemonia neoliberale che si è prodotta dagli anni Ottanta in poi nelle democrazie occidentali, «cambiandone i connotati», scrive l’autrice : «Il neoliberismo infatti governa non contro, ma attraverso la libertà, non la sopprime né la reprime ma la usa, la incrementa e la consuma, nella forma di un’autoaffermazione individuale che afferma e rilancia il dispositivo che la produce» (p.47).  Se questa è la norma – quella di una libertà asservita al dovere di godere – un capo che si sottrae alle regole che limiterebbero le sue azioni e vive producendo leggi ad personam sia nel campo della cosa pubblica che in quello delle sue «cene eleganti», ottiene consensi non solo perché può e sa manipolare la verità (come gli hanno abbondantemente fatto notare da sinistra) ma perché, molto più efficacemente, riesce a produrre un discorso del tutto idoneo al rispecchiamento e all’identificazione.

Per questo il governo-impresa ha funzionato macinando consensi, spiega Dominijanni, perché il soggetto-impresa che lo presiedeva interiorizzando e rilanciando in ogni istante i valori fondanti dell’etica di sistema, è riuscito a liquidare l’homo democraticus neoliberale come un fantoccio, un soggetto ipocrita costretto a fare i conti con un vecchio dover essere  cui nessuno più crede.

Per la sua interpretazione «paradigmatica» di  Berlusconi come figura di capo al centro d’un nuovo Disagio della civiltà, Dominijanni riprende le letture neolacaniane – in particolare di Massimo Recalcati, ma non solo – in materia di un presente post-edipico, in cui le logiche del sistema economico («il discorso del capitalista » di Lacan) hanno la meglio sul conflitto fra Legge e godimento e creano invece sulla loro equivalenza un nuovo ordine di valori. Per questo – ha potuto dire Recalcati – Berlusconi non ha governato «nonostante» i suoi comportamenti ma proprio grazie a loro, muovendosi, in un orizzonte di sostanziale crisi del maschile e del paterno, quale riedizione di un padre-padrone onnipontente e ordalico, concentrato sul presente e sul soddisfacimento dei propri interessi così come delle proprie pulsioni. Le tesi lacaniane sull’evaporazione del padre e l’eclissi della funzione paterna rischiano però di restare secondo Dominijanni ancora troppo dentro una genealogia tutta maschile e confermare – seppur da un’angolatura critica – una precisa difficoltà di cui l’autrice ricostruisce tutti gli aspetti: difficoltà a riconoscere il valore della presa di parola femminile. Se c’è un tema che fa da vera e propria nervatura al libro è questo, la marginalizzazione della parola femminile, la difficoltà ancora esistente di autorizzare la parola femminile, lasciarle spazio, autonomia e autorità sulla scena pubblica. È la sorte toccata al femminismo, portatore inascoltato di un pensiero e di una pratica che avendo indagato le tensioni fra sessualità e politica, sarebbe stato capace di interpretare quella materia pulsionale – corpo, sessualità, affetti, inconscio, relazioni – che invece è arrivata nel cuore delle istituzioni senza mediazione alcuna.  Femminismo che, pur non compreso, è stato additato come origine e legittimazione possibile della «libertà» sessuale agita dal Capo. Non sono mancate infatti le letture dei suoi comportamenti come l’ esito imprevisto della liberazione sessuale voluta dai movimenti dal ’68 in poi, per tutti e per le donne in primis! Una semplificazione che non ha colto la differenza sostanziale fra una liberazione sessuale pensata contro il potere e una completamente asservita al potere e che del potere si fa sostegno moltiplicatore. Ma non è solo la rivoluzione femminista che non è stata capita, assimilata e integrata dal discorso dominante, anche la parola femminile di donne in carne ed ossa che, in modi diversi, hanno saputo dire «Il re è nudo», rilevando che la sua performance di potenza, persino sessuale, esiste solo in virtù della compiacenza di chi è pronto a crederci, ha stentato a venir presa sul serio. Dominijanni ricostruisce la fatica mediatica imposta alle voci di chi si è opposto, da vicino e da posizioni inattese, a quell’intreccio malato fra potere e sessualità, allo scambio mercificato dei corpi femminili, al groviglio insopportabile di camere politiche con camere da letto. In tal senso risultano molto belle le pagine in cui Ida, opponendosi al tentativo obsoleto di delegittimazione delle parole di donne come Veronica Lario, Patrizia D’Addario (ma anche di Sofia Ventura che tra le file berlusconiane prese la parola prima dei suoi compagni di partito contro i giochi del Cavaliere), ridefinisce i termini della libertà femminile, proprio come capacità di togliersi dal gioco dell’altro, di interrompere la propria complicità con il potere maschile. Eppure è stata questa «parola» che ha saputo erodere dall’interno la tenuta di un assetto parso per anni invincibile: «e il corpo del Capo, esso stesso feticcio dell’immaginario populista, si disfa nelle chiacchiere impietose delle olgettine o delle loro amiche sul “degenero totale” dei riti di Arcore, fino a diventare “la caricatura di se stesso”, “un vecchio e basta”. Potenza della chiacchiera quotidiana femminile, dice Michelle Perrot, a fronte della lingua tribunizia del potere» (p.85).

Sandra Burchi in DWF (103-104) Tutta salute!, 2014, 2-427