Il protagonismo delle donne in terra d’islam – appunti per una lettura storico politica. Leila Karami e Biancamaria Scarcia Amoretti (a cura di) Ediesse, Roma, 2015

Se pensiamo a quanto è forte, in Occidente, lo stereotipo che vede la donna musulmana sottomessa, vittima muta di un destino predeterminato e oppressa dal velo, e a quale ruolo tutto ciò abbia giocato e giochi nella costruzione di quello “scontro di civiltà” di cui parlava Samuel P. Huntington – e prima di lui l’orientalista Bernard Lewis (“The Roots of the Muslim Rage”, 1990) – risulta evidente l’importanza di un libro come quello appena dato alle stampe dalla Ediesse per la collana Sessimo&Razzismo: Il protagonismo delle donne in terra d’islam – appunti per una lettura storico politica a cura di Leila Karami, studiosa di islam, e Biancamaria Scarcia Amoretti, per più di 40 anni docente di islamistica.

Il volume – frutto di una serie di seminari svoltisi a Roma, presso la Casa internazionale delle donne, un paio di anni fa – è infatti, come lo definiscono le stesse curatrici, un “eccentrico testo di storia” – arricchito da una narrazione a più voci – per chi è interessato ad andare oltre gli stereotipi sul mondo musulmano, a partire dal protagonismo delle donne.

Con l’obiettivo di far emergere quanti più elementi specifici possibile, le autrici, come spiega Scarcia Amoretti nell’introduzione, hanno puntato sulle diversità positive, su ciò che le donne fanno e ottengono piuttosto che sugli aspetti negativi che, “nella maggior parte dei casi, sono trasversali e dunque non riguardano solo il mondo musulmano” (p. 17).

Accantonato l’assunto che l’islam sia strutturalmente nemico delle donne, Scarcia Amoretti rileva come “proprio il Corano, fonte prima del diritto musulmano, apra a favore delle donne non pochi orizzonti innovativi nel panorama dell’epoca” (p. 26). “La donna – spiega la docente – è riconosciuta come soggetto di diritto; può amministrare le sue sostanze senza l’intervento dell’uomo; eredita, sebbene in una percentuale inferiore a quella del maschio; può testimoniare, sebbene non alla pari del maschio: prerogative che non erano contemplate in molte società dell’epoca e anche dell’età moderna” (p. 27).

Da abbandonarsi è altresì l’idea che il mondo arabo sia una realtà omogenea. Tanto più che “sono le diverse esperienze coloniali e non l’islam a marcare prioritariamente la fisionomia attuale dei Paesi in oggetto, e non solo in relazione alle donne” (p. 35).

L’islam gioca infatti ruoli diversi a seconda del contesto ed è quello che emerge con chiarezza quando, delineato l’orizzonte entro cui collocare i Paesi oggetto di studio, le curatrici passano alla trattazione dei singoli casi. Se in Arabia Saudita l’islam è infatti elemento frenante per l’emancipazione delle donne, in Egitto scrive invece una storia diversa, con la nascita, per esempio, della Fratellanza musulmana che determina una svolta nella concezione del ruolo pubblico delle donne. Al punto che l’organizzazione – fondata nel 1928 da Hasan al-Banna – “non sarebbe risorta, dopo la persecuzione di Nasser, senza l’operato di una ‘sorella musulmana’, Zaynab al-Ghazali” (p. 72).

L’Egitto d’altronde fa un po’ da apripista. A mo’ di esempio basti pensare che è del 1899 il libro Tahrir al-mar’a (“La liberazione della donna”, a firma del giurista Qasim Amin) o che circa dieci anni dopo viene pubblicata, su iniziativa di Fatima Rashid, musulmana, la prima rivista al femminile “dedicata al progresso delle donne”.

Le curatrici ci conducono dalla Siria all’Indonesia, il Paese che ospita il maggior numero di musulmani, dalla Penisola arabica al Maghreb (“l’indicatore più significativo delle dinamiche giuridiche oggi in atto nei Paesi islamici”, p. 99), passando per il Pakistan, in cui l’appartenenza all’islam costituisce l’elemento prioritario dell’identità nazionale .

Scopriamo così che la Tunisia ha legalizzato l’aborto già nel 1965; che il regime di Gheddafi in Libia ha tentato di implementare la presenza delle donne nella società civile; che risale al 1914 la fondazione della prima organizzazione femminile libanese; che è una donna – Malalai Maiwandi – a mettere in piedi in Afghanistan una campagna di sostegno alla resistenza nella seconda guerra anglo-afgana: parliamo del 1878-1880.

Casi a sé, e di particolare interesse, sono la Palestina, la Turchia e l’Iran.

La Palestina è esempio emblematico del cambiamento di sguardo dell’Occidente nei confronti del Vicino e Medio Oriente con l’inizio della politica coloniale nel XIX secolo: è a partire da quel momento infatti che si teorizza che sia un Paese vuoto. Preludio dello slogan sionista “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. È la terra infatti a contare ed è proprio “la memoria della terra perduta che le donne palestinesi conservano e tramandano” (p. 120) dopo la Nakba (la catastrofe) del 1948, con la nascita dello Stato d’Israele (e la pulizia etnica che ne è scaturita). E insieme alla terra mantengono vivo il ricordo del villaggio e delle cerimonie collettive: “Tutto ciò che costituisce la cultura di un popolo e segna la sua identità” (p. 120).

La particolarità della Turchia – come si legge nel contributo di Ayse Saracgil – deriva invece dalla radicale modernizzazione che il Paese ha attraversato negli anni Venti e Trenta del ‘900 sotto la spinta di Kemal Ataturk. Sin da subito il kemalismo dà impulso all’emancipazione femminile, conferendo alle donne “diritti che in molti Paesi europei non erano nemmeno all’ordine del giorno” (p. 158). Pensiamo che è nel 1934 che viene concesso il diritto elettorale passivo e nel 1936 che diviene possibile la partecipazione attiva alle elezioni: l’anno successivo sono 18 le donne che entrano in Parlamento.

L’emancipazione femminile era parte del progetto kemalista di modernizzazione, fungendo da “potente simbolo a dimostrazione dell’avvenuta modernità di una nazione musulmana che si era fatta laica” (p. 158). Un intreccio, quello tra donne e kemalismo, che, rileva Saracgil, comincia a spezzarsi negli anni 70 quando molte giovani iniziano a impegnarsi in movimenti politici antagonisti: “Antimperialisti e di sinistra da una parte, nazionalisti e religiosi di destra dall’altra” (p. 158).

Ma le pagine forse più sorprendenti del volume sono quelle dedicate all’Iran. Data 1894 il pamphlet I vizi degli uomini con cui esordisce la scrittrice satirica Bibi Khanum Astarabadi: pubblicazione che costituisce una sorta di manifesto dei diritti delle donne. Di grande fermento è l’inizio del Novecento: sbocciano associazioni e giornali, nonché scuole femminili – seppure tra molte difficoltà – che, scrive Leila Karami, “se non propongono una ridefinizione culturale dell’identità femminile, incrinano tuttavia il paradigma sociale ancorato a una visione che non vuole le donne protagoniste visibili” (p. 209).

La stessa imposizione del velo, che tanto ha monopolizzato e monopolizza il dibattito in Occidente, ha avuto risvolti positivi, per quanto paradossali, come sottolinea Nadia Pizzuti, avendo favorito “l’emancipazione di donne appartenenti alle classi povere e agli ambienti tradizionalisti alle quali sarebbe stato altrimenti vietato di uscire”(p. 181).

Il lavoro di Scarcia Amoretti e Karami a conti fatti riesce nel suo intento: finita la lettura difficilmente si guarderà all’altra con lo stesso sguardo intriso di pregiudizio “orientalista”.

Ingrid Colanicchia in DWF (108) Fino all’ultima riga, 4, 201502