Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna di Anna Bellavitis, Viella, 2016

“Le donne hanno sempre lavorato” (…) Sembra strano dover ancora ricordare questa banale verità, che tutte le donne conoscono per esperienza, eppure capita ancora di sentir dire. “Da quando le donne lavorano…” come se “prima non l’avessero fatto”.

Comincia così il bel libro di Anna Bellavitis, Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna, edito in Italia da Viella nel 2016 e di cui è in  uscita per Palgrave Macmillan la traduzione, ampliata e rivista. Come primo punto l’autrice di preoccupa di  sgomberare il campo da un abbaglio che ha caratterizzato non solo la percezione comune del tema ma anche gli studi storici e le scienze sociali che hanno assecondato fino ad anni recenti l’idea  del lavoro femminile come un fenomeno strettamente legato alla recente modernità.  Un abbaglio non casuale ma che racconta di un modo formale di intendere il lavoro e della costruzione – tutta ideologica- di una separazione netta fra casa e città, fra ambito domestico e lavorativo, riproduzione e produzione. “Non era solo il lavoro di cura rivolto ai membri della famiglia ad essere svolto all’interno delle mura domestiche, ma anche una buona parte delle attività che le donne potevano esercitare nelle città dell’Europa moderna, come la filatura, il cucito e la tessitura”. Quello di cui parla il libro è dunque un lavoro per il mercato, raramente retribuito e vissuto come “complementare” nelle famiglie e nelle botteghe, difficile da far emergere nella ricerca storica.. Per questo Anna Bellavitis, sulla scia della storiografia femminista, si è mossa verso fonti che apparentemente non hanno nulla a che fare con il mondo del lavoro, come gli archivi dei tribunali, gli atti notarili o ancora le cosiddette fonti private, diari e corrispondenze. Seguendo queste fonti nelle città dell’Europa moderna il libro fa emergere un paesaggio frastagliato e molto vario in cui  una varietà di figure e di temi confermano la vitalità del  lavorare femminile, mestieri e abilità  capaci di inserirsi negli interstizi di norme e abitudini sociali di una vasta area geografica che va dall’Italia alla Scandinavia, dalla Spagna alla Polonia.  Confrontandosi con le stime quantitative esistenti, l’autrice restituisce i numeri del lavoro delle donne permettendo di confrontarci con una realtà come quella del settore tessile e dell’abbigliamento in cui, in nelle principali città italiane fra il XVI e il XVII sec, il tasso di impiego femminile era più che consistente.  Nella sola Firenze, per dare un esempio, nel 1604 le tessitrici corrispondevano al 62% del totale e fra le artigiane della lana si attestavano al 40%. Ma per quanto importanti non sono questi numeri ad arricchire lo sguardo sul lavoro femminile della prima modernità, è piuttosto la varietà di lavori svolti dalle donne, l’affermarsi di un “modo di lavorare femminile” e la capacità di organizzarlo, rappresentarlo e dotarlo di istituti giuridici, come è stato il caso delle corporazioni, in cui il protagonismo femminile ha seguito un interessante “movimento a fisarmonica” (su questo Bellavitis riprende la proposta di una studiosa di riferimento per questi studi in Italia, Angela Groppi), caratterizzato da fasi di inclusione e fasi di esclusione, legate soprattutto alle congiunture economiche. Tutta la seconda parte del libro è dedicata ai mestieri o alle attività in cui la presenza femminile era imponente quando non rappresentava un vero e proprio “monopolio”. Il quarto capitolo studia i luoghi del lavoro femminile (casa, negozio, istituzioni religiose e caritative), l’ultimo è dedicto  su quello che Bellavitis definisce “mestieri da donne”: servire, nutrire, guarire, mettere al mondo, prostituirsi, tutti i lavori che hanno a che fare con il corpo femminile naturalizzato come “strumento” o “oggetto”..La partecipazione delle donne all’economia delle città moderne appare così composta di forme ufficiali, regolate da leggi e forme sommerse, clandestine illegali, tutte ugualmente necessarie quando non alle singole donne e famiglie alla vita della comunità.Nei quattro capitoli del libro l’autrice tiene insieme il filo delle ricerche di archivio – alcune importanti compiute in prima persona, come quelle degli archivi veneziani – con le proposte interpretative emerse nella letteratura scientifica negli ultimi trent’anni, prendendo parole chiave del dibattito attuale e precisandoli alla luce della prospettiva storica. Parole come  genere, globalizzazione, migrazioni, diritti prendono spazio nel seguire il farsi di un lavoro femminile le cui strutture,  come problemi di lunga durata, arrivano fino a noi: prima fra tutte la questione del “riconoscimento” o della “identità di genere” di alcuni lavori.

Sandra Burchi in DWF (119) Lavori aperti, 3, 2018