Il giudice delle donne, Maria Rosa Cutrufelli, Frassinelli, 2016

Che cosa aggiunge o intercetta la forma-romanzo scelta da Cutrufelli rispetto ad altri dispositivi di messa in parola o in pagina del problema che è al centro di questo libro: vale a dire il suffragio femminile? Sappiamo come questo tema sia stato finalmente oggetto negli ultimi anni dell’attenzione storica, anzi delle storiche che si sono dedicate con passione ad approfondire un argomento per anni scartato come marginale se non addirittura fuorviante. Agli albori della ricerca storica femminile davvero libera e consapevole delle proprie autonome responsabilità rispetto al proprio oggetto d’indagine, era infatti prevalsa la tendenza a privilegiare – come sfera della realtà concreta e dunque più consona al concretissimo senso delle donne per le “vere cose della vita” – la dimensione sociale dell’esistenza femminile. Si è così indagato per molto tempo soprattutto le faccende più strettamente legate alla vita delle donne nella famiglia o, comunque, nella dimensione privata: una dimensione che arrivava tuttalpiù a includere matrimoni e questioni di lignaggio nell’area della propria esplorazione. Non saprei dire quanto consapevoli fossero le protagoniste di quel capitolo della storia intellettuale italiana, di quell’intreccio di piani labirintico che lega i fantasmi dell’Io al mondo e alla Storia. C’era già stato invero Elvio Fachinelli, lo psicoanalista più legato ai primordi dell’esperienza femminista italiana, a sollecitare curiosità e sensibilità inedite. Sulla sua rivista “Erba voglio” troviamo le prime tracce di una pista d’indagine ricchissima di svolgimenti futuri: il “partire da sé” affonda una delle sue radici anche nella precoce intuizione di Fachinelli circa il “desiderio dissidente” delle donne, un desiderio senza oggetto e dunque capace di uno scarto liberatorio nei confronti del reale, vale a dire del potere.

Solo in un secondo tempo si è arrivate a includere il lavoro, anzi i lavori, nelle indagini in grado di intercettare momenti significativi dell’esistenza femminile. Penso, come esempio significativo, ai volumi sulla storia delle donne in Italia pubblicati da Laterza circa 25 anni orsono, che – ricordo – sono dedicati alla Storia del Matrimonio (a cura di Michela De Giorgio e di Christiane Klapich-Zuber, Roma-Bari, 1997), alla Storia della maternità (a cura di Marina d’amelia, Roma-Bari, 1997), a I lavori delle donne (a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, 1996) e – in fine – a una dimensione così prepotentemente simbolica come Donne e Fede (a cura di Lucetta Scaraffia e Gabriella Zarri, Roma-Bari, 2007). Sulle soglie del campo, del laboratorio artigiano e dell’officina o della fabbrica si arrestava l’indagine delle storiche italiane negli anni 80/90. Con la lodevole eccezione del volume dedicato al campo religioso, la sfera pubblica vera e propria, i teatri e teatrini della politica sono usciti dal cono d’ombra soltanto successivamente, proprio con le ricerche dedicate al suffragio femminile in Italia. Perché quella del voto alle donne è una storia tormentata. Per anni si è pensato che l’Italia fosse immersa in un colpevole e ininterrotto ritardo rispetto ai gloriosi esempi stranieri. Chi non ricorda Virginia Woolf e la sua celebre “stanza tutta per sé”, in cui commentava con ironia  il suffragio finalmente strappato (nel 1927) dalle donne inglesi, eredi delle gloriose suffragette? Le inglesi, rifletteva con sarcasmo un po’ dolente la Woolf, potevano un po’ in ritardo ritirare la mano che aveva scagliato tante pietre agli inizi del secolo XX, e interpretare con uno sguardo un po’ abbassato il ruolo di eroine minori del capitolo storico appena aperto.

E le italiane? Che cosa facevano nel frattempo le italiane? Le nostre antenate continuarono per parecchio tempo ad apparire le vittime privilegiate di quel famoso andamento carsico che – si diceva con sbigottimento – sembrava inghiottire a decenni alternati la presenza femminile sulla scena pubblica, facendo improvvisamente riemergere le donne dal loro letargo con una forza e un’energia del tutto insospettate. Dobbiamo alle ricerche di giovani storiche come Catia Papa ed Elisabetta Galeotti la riscoperta di presenze, forme di lotta e coraggiose iniziative delle donne italiane del secolo scorso, dalla belle époque fino all’epopea della Resistenza e della battaglia costituzionale.

Resta il problema della qualità di questa presenza. Come rintracciarla, in quali pieghe o risvolti delle carte di archivio, così avare e poco loquaci relativamente alle tracce femminili?

Le storiche hanno fatto il possibile e l’impossibile per scavare nelle assenze. Ma questo libro rivela un’intuizione molto brillante. Cutrufelli ricostruisce, infatti, nella forma che solo la narrazione romanzesca consente, le ragioni di alcune azioni individuali rese plausibili proprio dalla loro comune marginalità storica. In modo più o meno consapevole Cutrufelli sembra condividere l’opinione di Daniel Stern, il quale afferma che: “Quasi tutto            quello che sappiamo nel rapporto con gli altri si colloca nell’ambito della conoscenza implicita, che rappresenta un canale parallelo all’inconscio rimosso”. Che cosa ci rappresenta, infatti, l’autrice, aldilà di ogni esplicita teorizzazione? Che un magistrato dal nome pesantemente ebraico di Mortara sia spinto dall’esperienza (forse) della propria marginalità a rintracciare nel buco nero di una carta costituzionale come lo statuto albertino il pertugio attraverso il quale far passare il cammino di libertà di un altro soggetto istituzionalmente marginale come le donne. La prima Costituzione del Regno, infatti, non negava esplicitamente l’accesso delle donne al voto, né vietava di interpretare come uno dei generali diritti di libertà che spettavano a tutti gli italiani, il diritto al suffragio. Ecco dunque che il presidente della Corte di Appello di Ancona (città sede di uno tra i più rilevanti – giova ricordarlo – fra gli insediamenti ebraici italiani) si sentì autorizzato a convalidare l’iscrizione di 10 maestre nelle liste elettorali di competenza della Corte. Cutrufelli non si sofferma sulle ragioni del gesto di Mortara, il cui cognome non può non richiamare un celebre caso: il rapimento di un bambino ebreo battezzato di nascosto da una serva nella Bologna ancora papalina di metà Ottocento, e per questo stesso motivo fatto rapire dai birri di Pio IX e allevato nella Casa dei catecumeni di Roma. Ma del giudice l’autrice ci dice cose importanti: ci racconta, con il pretesto di un’intervista al giornalista Adelmo, della sua casa, della sua famiglia, insomma della sua vita. E della vita di due delle famose dieci maestre iscritte nelle liste elettorali in virtù dell’imprevista (e forse – per la giurisdizione dell’epoca – imprevedibile) interpretazione di Mortara… E ci racconta quella storia minore che secondo Virginia Woolf era l’unica dimensione storica in cui le donne potevano trovarsi a proprio agio, immaginarvisi dentro senza arrossire: insomma quella storia vissuta a occhi bassi, che tuttavia non escludeva la possibilità di rialzare fieramente la testa e di affrontare il mondo sconosciuto di tribunali, carte bollate e di battaglie a viso aperto per l’affermazione di una libertà…Quella stessa libertà di esplorazione del mondo urbano di una grande città – fatto di caffè e grandi magazzini, d’insidie e di tentazioni – che Cutrufelli ci rappresenta vividamente attraverso gli occhi intelligenti di Alessandra e quelli di Lisetta, intorpiditi dal desiderio e dalla tentazione. Senza la forma-romanzo non sapremmo nulla né delle motivazioni alte e nobili di Mortara, ma neppure delle evasioni non più così innocenti delle giovani donne dell’Italia del primo 900. E dunque saremmo tutte molto più povere.

Gabriella Bonacchi in DWF (110-111) Europa. Ragioni e sentimenti, 2-3, 2016