I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro di Anna Simone, Einaudi, 2014

Un libro ricco di voci, che si fanno eco e si contrastano, dando vita ad una complessità che ben rispecchia la condizione che l’autrice, Anna Simone, ha voluto indagare, “per desiderio e per necessità”. 21 donne di talento si raccontano e si confrontano con una storia e un presente che le vede ancora come “eccezioni” in un Paese pensato e modellato da maschi per i maschi: politiche, sindacaliste, femministe, imprenditrici, giornaliste, sociologhe, docenti universitarie si incontrano in una cornice di cui l’autrice disegna bene i contorni: un passaggio dal patriarcato al paternalismo. “Il patriarcato si fondava e talvolta si fonda ancora sull’esclusione delle donne dalla sfera pubblica, il post-patriarcato si fonda, invece, sull’inclusione – per differenza – delle donne nella medesima sfera. Ciò significa che oggi si include più per retorica politically correct che non per reale attribuzione di senso e valore ai percorsi femminili connotati da passione, saper fare, desiderio di esserci. In questo caso dovremmo parlare più di paternalismo che non di patriarcato classicamente inteso” (pp. 38-39). Un’inclusione, che la stessa Simone definisce “differenziante”, figlia della politica delle quote, disconosciuta da tutte le donne intervistate. Una politica che non riconosce la piena cittadinanza femminile, che considera le donne un “corpo sociale sottorappresentato” da includere in un sistema che, di fatto, non muta. Ciò che deve cambiare, dice l’autrice, è la cultura di base: è necessario superare la politica delle azioni positive per favorire l’accesso delle donne a tutti i mondi sociali ed esigere i diritti fondamentali, dispositivi in grado di garantire una democrazia paritaria alla base, di sistema, come il reddito di base, più volte citato nel testo. Oggi che la femminilizzazione del lavoro e della società continua ad agire, resistono ancora forme patriarcali di organizzazione del lavoro e della politica, che generano “dal punto di vista sociale, una sorta di colpevolizzazione della donna, la quale appare persino come la forma principale del progressivo deteriorarsi, nella nostra società, della famiglia” (p. 18).

Eppure ci troviamo in un momento storico in cui pare che alle donne venga dato grande spazio. In realtà ci troviamo di fronte a “processi di neooggettivazione del corpo femminile” che creano un immaginario comune pericoloso: da una parte l’erotizzazione permanente dei corpi femminili, dall’altra la messa a valore del cosiddetto fattore D; quindi da una parte la donna oggetto del desiderio maschile, dall’altra la donna “inclusa per differenza”, vale a dire inclusa nel sistema dato perché utile all’aumento del Pil grazie all’utilizzo nel mercato del lavoro di competenze e capacità relazionali (amore, cura, sensibilità) un tempo tipiche del lavoro domestico. Tendenze e controtendenze, come le chiama l’autrice, che mettono di nuovo le donne di fronte alla questione legata all’autodeterminazione. “Autodeterminarsi vuol dire seguire il desiderio e acquisire autorevolezza” titola un paragrafo del libro. Un titolo che rimanda a un percorso arduo e faticoso, perché autodeterminarsi non è affatto semplice: “occorre lavorare di esperienza e di acquisizione di autorevolezza, produrre conflitto con i custodi della decisione e del potere per poter fare ciò che si desidera. L’autorevolezza che si acquisisce con l’esperienza e con la forza delle proprie passioni è un percorso, una strada interessante proprio perché si colloca nel ‘modo’ e nel ‘come’fare relazione con gli uomini e con le donne senza cadere nella trappola della competitività e del modello darwiniano della logica del più forte” (pp.47-48). E’ importante dirlo e dircelo: l’autodeterminazione si fonda sulla forza del sé che spesso non tiene conto dei rapporti di subordinazione che si vivono, rischia di schiacciarci, rischia di diventare anche questo un percorso prestazionale. Necessaria l’acquisizione dell’indipendenza, anche economica, e questa nel nostro paese passa solo attraverso il lavoro, che oggi è lavoro precario, svuotato di diritti, ricattatorio.

Autodeterminarsi diventa sempre più difficile. Inoltre, come detto, bisogna lavorare di esperienza e acquisire autorevolezza e produrre conflitto con il potere. Tutte condizioni complesse da raggiungere, soprattutto se si è sole. L’incipit del Manifesto delle Femministe Nove recita: “Scriviamo per ritrovare il senso e il tempo di una autodeterminazione individuale e collettiva”. Il punto è questo: prendersi il tempo e ritrovare il senso. Perché se l’audoterminazione non ha un contenuto ma è un percorso che parte da sé, autodeterminarsi oggi significa radicarsi nella materialità dei corpi e delle condizioni, e i corpi sono spesso dei rimossi e le condizioni sono quelle di una precarietà diffusa. Da sole si finisce per soccombere. La chiave è la relazione e la domanda è: come stare in relazione?, come fare relazione lontane dalla competitività e dalla logica del più forte? Chiara Saraceno ci pone di fronte a una questione interessante: “l’essere sempre attente alla relazione, il dare più importanza agli aspetti personali, può avere anche risvolti negativi o comportare dei rischi. Parlo di due tipi di rischi: in primo luogo l’altro non sempre sa bene in che rapporti stare con te […] certe volte, anche per timore, molte donne hanno paura di esercitare esplicitamente l’autorità, e sottolineo esplicitamente, perché temono di non essere sufficientemente legittimate e di non essere più amate, perché – come è noto – si riconosce difficilmente l’autorità di una donna. Il secondo rischio è che lavorando molto sulle relazioni ci si possa trovare in competizione, le donne su questo possono essere terribili” (p. 50).

Un libro come questo, in cui a prendere parola sono le donne delle istituzioni, delle aziende, dei luoghi decisionali, degli spazi “di potere”, fa nascere domande che sono anche punti di criticità rispetto alle relazioni tra il femminismo e le donne che ricoprono o hanno ricoperto cariche di potere: se la femminilizzazione del potere è iniziata, le donne delle istituzioni, le donne che sono nei luoghi del potere, anche se si tratta oggi di simulacri del potere, cosa fanno? Approfittano della crisi del potere come lo abbiamo sempre conosciuto? Riescono a fare la differenza e non solo ad essere differenti? La ricerca Eurispes citata nel libro afferma che la gran parte delle donne al potere assume il modello maschile del potere, ma le testimonianze riportate ci raccontano un’altra storia: le donne si muovono per una giustizia per tutti (Cucchi), il potere equivale al piacere di fare le cose con altri e altre (Rangeri), la sensibilità, gli obiettivi, l’approccio sono differenti (Catizone).

Allora queste donne al potere come la fanno la differenza? Lea Melandri mette al centro della sua esperienza il corpo e ci racconta nella sua intervista che questo corpo, con tutto quello che ha significato storicamente, la donna se lo porta dietro anche nelle carriere alte, nei luoghi più duri. E lì pesa, questo corpo continua a pesare. C’è quella che lo considera un intralcio e quindi cerca maschilmente, virilmente, di tenerlo separato, ma c’è anche quella che non può separarlo. Allora o scegli di valorizzarlo, ma ti metti di nuovo in una posizione subalterna di complementarietà, oppure tenti acrobatica mente di tenere le due cose insieme, facendo uno sforzo enorme. E le politiche di conciliazione non bastano: si chiede alle donne l’impossibile, dice Lea Melandri, quando quello che serve è ripensare il welfare, renderlo adeguato alle scelte delle donne e degli uomini, “collettivizzare” i carichi di lavoro domestico e/o di cura.

Possibile che il potere in tutti questi anni sia rimasto impermeabile ai cambiamenti, come afferma la segretaria della Cgil Camusso? O che il mondo al femminile si sia seduto, come dichiara Emma Bonino? Oppure è vero che molto spesso le donne non aiutano le altre donne, come ci dice Catizone? In queste domande c’è il desiderio di interrogare la durezza che in alcune di queste interviste ho sentito sul presente e sui femminismi che questo presente lo abitano. Perché se c’è una questione maschile, come chiude l’autrice, c’è certamente ancora una questione femminile da sciogliere.

Teresa Di Martino in DWF (102) Pensiero stupendo, 2014, 2