Fortune del femminismo, Nancy Fraser, Ombre Corte, 2014

Il volume è composto da una raccolta di saggi dell’autrice – docente di filosofia e politica alla News School for Social Research di New York – che copre un quarto di secolo, dal 1985 al 2010, e poco oltre. Nel prologo, che si apre all’insegna della triade, Fraser introduce quelli che chiama i tre atti dell’opera femminista della seconda generazione, a partire dagli anni Settanta ad oggi, così come li interpreta e cioè: un primo atto in cui il movimento di liberazione delle donne afferma che “il personale è politico” e unendosi ad altre correnti radicali disvela l’androcentrismo del capitale e demolisce l’immaginario socialdemocratico che occulta sotto strati di perbenismo borghese familista l’ingiustizia di genere; un secondo atto in cui gli impulsi trasformativi vengono incanalati “in un nuovo immaginario politico cha ha posto in primo piano la ‘differenza’” spostando la rivendicazione “dalla redistribuzione al riconoscimento” e concentrando le forze nella politica culturale proprio mentre (ahimè, la sfiga non ha regole precise) “il nascente neoliberismo dichiarava guerra alla parità sociale”; e infine un terzo atto, in corso (o atteso) in cui agisce un femminismo “rinvigorito, che si unisce ad altre forze per l’emancipazione, le quali puntano a sottoporre i mercati in fuga al controllo democratico”.

Ai tre atti dell’opera femminista corrispondono le tre parti in cui è suddiviso il volume.

Il fulcro intorno a cui si muovono i quattro saggi della prima parte è la critica al welfare state familista centrato sul capofamiglia (bianco) lavoratore. E’ la parte probabilmente più interessante del volume perché i temi e le questioni affrontate, ancorché datate rispetto alla riflessione dei femminismi a livello internazionale, sono ancora attuali, in quanto irrisolti, poco compresi o semplicemente dimenticati, nel dibattito politico nazionale italiano. Senza entrare nel vivo dei quattro saggi in questione (che, ripeto, vale la pena di leggere, o rileggere, anche solo per rinfrescarsi la memoria) a volo d’uccello nomino semplicemente alcuni dei concetti, temi e discorsi toccati: analisi e critica al concetto di “lavoro sociale” di Habermas, che include il lavoro non retribuito delle donne per la cura dei figli nella riproduzione simbolica (e non in quella materiale); il legame tra il “lavoro salariato” imposto dal capitale e la famiglia mononucleare con capofamiglia maschio; la dominazione maschile non è accidentale ma intrinseca al capitalismo perché la struttura istituzionale di questa formazione sociale si realizza attraverso ruoli di genere; la rilevanza politica della violenza domestica; il paternalismo che appare quando le rivendicazioni dei bisogni si separano dalle rivendicazioni dei diritti; l’invenzione della casalinga; la “dipendenza dal welfare”; il “salario familiare” e la giustizia di genere.

Nella seconda parte (dal titolo: Il femminismo addomesticato: dalla redistribuzione al riconoscimento nell’epoca dell’identità) i temi della rivendicazione identitaria e il riconoscimento vengono trattati come il momento del negativo e, aggiungo, come una inspiegabile svista, un errare, l’andare per farfalle. La terza parte, infine, analizza possibilità e prospettive di ripresa del femminismo radicale una volta rimboccata la retta via (Femminismo risorgente? Affrontare la crisi del capitalismo nell’era neoliberista).

I saggi che compongono la seconda e terza parte del volume, seppur singolarmente interessanti, non necessariamente ci riconducono al percorso tracciato da Fraser nel prologo, aprono, al contrario a mio avviso, molti più interrogativi e occasioni di riflessione rispetto a quanto l’autrice a posteriori, e con un tocco esteriore, senza tempo, o forse semplicemente senza corpo, ci propone.

Nomino semplicemente alcuni temi: visione bidimensionale del concetto di genere (come classe e come status); la giustizia di genere come parità partecipativa; nessuna redistribuzione senza riconoscimento/nessun riconoscimento senza redistribuzione; le tre dimensioni della giustizia sociale: politica (rappresentanza), economica (redistribuzione), culturale (riconoscimento).

Concludo: il volume è uno strumento utile a patto di non fidarsi della speranza di Fraser;

“sviluppare nuove strategie concettuali e pratiche per combattere contemporaneamente le ingiustizie di genere nell’economia e nella cultura” oppure “mappare la grammatica delle lotte sociali che stanno rispondendo alla crisi e rimodellare il terreno politico su cui opera il femminismo” non sono necessariamente né un imperativo né il destino del femminismo attuale.

La triade spesso inganna, come anche il capitale. Il ruolo del negativo che Fraser attribuisce alle istanze femministe di riconoscimento appare come frutto di un giudizio di valore che non include in sé la storia, il processo, l’errare come momento di ricerca che porta frutti che vanno assaggiati, assimilati, prima di capire se faranno bene o male alla nostra salute. Appare, questo ruolo, affidato per poter contare su di un utile gradino da salire per indicare la verità e la via, cioè quella del recupero di un simbolico e un immaginario che non ha, purtroppo, nessun reale con cui danzare. L’impressione è che manchi, a partire dal primo atto, la consapevolezza che noi siamo dentro una organizzazione sociale che obbedisce al capitale, che obbediamo al capitale anche quando pensiamo di creare strumenti concettuali per combatterlo, e che siamo sempre sussunte, volenti o nolenti, dal mercato e dal profitto. Manca il corpo, il sentire che trasformare e interpretare hanno origine, ed esito, diverso, e spesso viaggiano su strade che non necessariamente si riconoscono quando si incrociano.

Il terzo atto dell’opera femminista, catartico o sintetico (preferite la tragedia o la scienza della logica?) vagheggiato da Fraser è un momento fuori dal tempo in cui le intuizioni iniziali, insurrezionali – preso atto del momento erratico identitario – si ricompongono in un movimento radicale che contiene in sé la critica di genere alla dominazione maschile e nel contempo stabilisce, fonda, la giustizia redistributiva di genere. Ci manca solo il deus ex machina (e poi le fate che spazzano il palco). Oltrepassato il momento consolatorio dell’attesa che accada per miracolo ciò che desideriamo, alcuni dei saggi proposti da Fraser potrebbero essere utili – ora a noi in Italia – per suscitare un dibattito sulla giustizia sociale che si muova con lucidità rispetto all’attuale ulteriore trasformazione neoliberista dell’organizzazione sociale del lavoro in cui non solo il reddito ma anche il lavoro stesso non è più considerato come un diritto ma come un’elargizione caritatevole a cui si accede tramite la bontà, o peggio, il merito.

Milva Pistoni in DWF (107) Ancora sorelle?, 2015, 3