Drag. Storia di una sottocultura, Eleonora Santamaria, Edizioni dell’asino, 2021

Il libro di Eleonora Santamaria nasce come tesi di laurea magistrale: con un approccio interdisciplinare, si pone l’obiettivo di fornire a chi legge una panoramica storica, culturale e artistica di una sottocultura, quella del drag. Se fa sorridere pensare alle espressioni probabilmente perplesse de* docenti rigidamente seduti in commissione di laurea, molto più interessante è interrogarsi sull’impatto di uno studio del genere quando destinato al pubblico generico, quello che legge appunto questo libro.

Il drag viene presentato come una sottocultura nella definizione proposta dall’autrice stessa, prendendo in prestito le parole di Dick Hebdige, ovvero come “ciò che si differenzia dal resto della società con uno stile di vita, comportamento o aspetto simbolici e alternativi rispetto a quelli dominanti” (pagine 40-41). La norma dominante da cui il drag si differenzia è quella della società cis-eteronormata fondata su ruoli di genere cristallizzati: le drag queen – su cui questo libro si concentra prevalentemente – sfidano le definizioni rigide di “uomo” e “donna”, creando immaginari di liberazione di cui tutt* – indipendentemente da genere e orientamento sessuale – possono beneficiare. La struttura del libro è estremamente interessante. Chi legge viene accompagnat* in un viaggio: in ogni capitolo la guida viene lasciata a una persona, o meglio, un personaggio che ha segnato la storia della sottocultura drag e, tramite la sua storia, viene tracciata una direttrice narrativa che spiega le sfaccettature del mondo drag, dal camp all’attivismo, dalla sessualità al rapporto con il femminile, dal lessico alla pop culture. Un capitolo viene, inoltre, dedicato alla scena drag italiana con interviste ad alcune persone che hanno favorito la diffusione di questa sottocultura in Italia: nel capitolo l’autrice tenta di ricostruire le specificità del drag italiano, intrecciando la narrazione di questa storia con quella del movimento LGBTQ italiano e analizzando il panorama composito esistente a livello regionale.

Al di là dell’interesse specifico del* lettor* per la sottocultura drag, chi legge viene accompagnat* alla scoperta di un mondo con una storia, un immaginario, delle pratiche – spesso espresse nel contesto delle ball – e una potenza espressiva e dirompente che va ben oltre i prodotti – anche validi – offerti dal mainstream, quali la serie Pose e il talent-show RuPaul’s Drag Race, format da poco sbarcato in Italia come Drag Race Italia. Nell’immergerci in questo racconto, alcuni concetti emergono in tutta la loro potenza. C’è per esempio la realness, l’obiettivo supremo di ogni drag queen ovvero l’abilità di mostrarsi come membro a pieno titolo della categoria per cui si compete nella ball. La realness consiste nella “abilità di costringere a credere, a produrre un effetto naturalizzato” (pagina 41). Facile comprendere come questa “realisticità” – anche al di fuori della sottocultura drag – possa suonare estremamente familiare alla riflessione e alle pratiche queer e transfemministe: l’obiettivo è quello di far esplodere le categorie di genere e i ruoli connessi dimostrandone l’artificiosità e la natura prettamente storica e sociale, decostruendo pezzo per pezzo la loro supposta naturalità. Come il drag è finzione e artificio, così lo sono i ruoli di genere.

Altro concetto di estremo interesse è l’othermothering: nel drag delle origini – negli Stati Uniti degli anni ’70 – la scena drag si articola in houses, in case abitate da famiglie scelte e formate, generalmente, da persone spinte ai margini da una società cis-eteronormata, classista e razzista. Nelle houses, queste persone potevano trovare riparo e supporto e respirare un senso di appartenenza e comunità. A capo delle houses c’erano (e ci sono) le madri, membri rispettati della comunità e punti di riferimento per l* nuov* arrivat*. Non madri in senso biologico, ma matriarche che riconcettualizzano la maternità e forniscono protezione e guida a persone che molto spesso venivano cacciate dalle famiglie biologiche di origine per la loro divergenza dalla norma. Il concetto di othermothering sembra essere un’espressione materiale della kinship di cui ci parla Donna Haraway ma risuona anche nella materialità delle vite delle persone queer in cui le famiglie scelte, le parentele non biologiche costituiscono la spina dorsale che ci permette di stare in piedi in un mondo che non ci riconosce o, più direttamente, ci disprezza.

Forte è anche la presenza dell’attivismo nella scena drag statunitense, soprattutto negli anni segnati dalla crisi dell’HIV/AIDS. In quella fase il numero delle houses aumentò negli Stati Uniti, divenendo uno spazio in cui la comunità poteva piangere vite considerate dispensabili, organizzare la lotta e fare formazione. Il libro ci racconta, quindi, della nascita della scena Kiki a opera di membri di varie houses e di attivist* per la salute della comunità queer: la House of Latex – una di queste case appunto – si poneva l’obiettivo di informare, prevenire e sfidare lo stigma sierofobico tramite la danza.

Infine, la narrazione è condita da richiami costanti alla cultura pop che consentono di intessere fili di comprensione e attirare l’attenzione di chi legge, attenuando il senso di straniamento che accompagna la conoscenza di mondi completamente altri da sé. Una tecnica molto cara all’universo queer che da sempre si serve della cultura pop, stravolgendone significati e significanti per ridarli in pasto alla società normata in modo fastidioso e dirompente. Un esempio magistrale di questa riappropriazione e risignificazione della cultura pop lo troviamo nel lavoro di Jack Halberstam: il suo femminismo gaga[1] – che, partendo dall’icona pop Lady Gaga, propone un vero e proprio manifesto politico per una lotta queer fuori dagli schemi e dalle categorie dell’asfittico binarismo di genere –  ne è un esempio lampante.

Il libro di Eleonora Santamaria corre però alcuni rischi. In primo luogo, ricostruire la storia di una sottocultura o di un movimento non è un’operazione neutrale: conta molto il posizionamento incarnato di chi scrive, così come la selezione delle informazioni, dei punti di vista e della lente di osservazione. Nel libro il mondo drag viene descritto come una sottocultura, radicalmente marginale rispetto alla società dominante; e però, sembra al contempo tralasciare le esperienze odierne afferenti al mondo drag che si organizzano al di fuori dei circuiti commerciali mainstream. La comunità queer italiana – non solo quella che anima associazioni e serate che richiamano la sottocultura drag – sta riscoprendo le ball e la cultura delle houses nel loro senso originario di punto di riferimento per i soggetti al margine della norma: è il caso del collettivo napoletano Assembramentah, uno spazio radicale e autorganizzato di “favolosità che rifiuta le imposizioni della ciseteronormatività e del patriarcato” che negli ultimi anni ha fatto delle ball uno dei suoi strumenti di lotta. Anche da un punto di vista storico, il contesto italiano sembra essere descritto come più chiuso e tradizionalista rispetto a quello statunitense e irrimediabilmente fratturato da un divario nord/sud facilmente traslabile in quello progresso/arretratezza. Eppure, la storia del movimento LGBT (e queer) italiano è potente e risalente ed è scorretto farla partire dalla Marcia contro la violenza sulle persone omosessuali, tenutasi a Pisa nel 1979: già nel 1972 Maria Silvia Spolato partecipava alla manifestazione dell’8 marzo romano con un cartello che recava la scritta “Liberazione omosessuale”  e pubblicava “I movimenti omosessuali di liberazione”; nel 1971 veniva fondato il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (F.U.O.R. I.) che pubblicò anche una sua rivista di cui, nel 2021, abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario; nel 1972 avvenne quella che viene considerata la “Stonewall italiana”, ovvero la contestazione al “Congresso internazionale sulle devianze sessuali” organizzato a Sanremo dal Centro italiano di sessuologia. Queste lacune – e più in generale la scelta di raccontare alcuni eventi o aspetti piuttosto che altri – dimostrano come ogni narrazione di un pezzo di storia sia di per sé parziale e risultante da un punto di vista personale, specifico e situato.

A questo si ricollega il secondo rischio che il libro corre, ovvero quello che oserei chiamare “l’effetto human zoo”. La lente di analisi dell’autrice sembra essere esterna alla scena drag, come fosse un’osservatrice curiosa e affascinata dall’oggetto di studio. Non è però uno studio etnografico in cui la voce viene lasciata ai membri della sottocultura analizzata – se non, in parte, nella descrizione del contesto italiano – ma piuttosto una ricostruzione di documenti e fonti di natura diversa. L’effetto che risulta da studi di questo tipo può essere a volte straniante: una sorta di voyerismo su una minoranza stigmatizzata che, con l’intento di decostruire i pregiudizi di coloro che detengono un privilegio, finisce piuttosto per fornire una narrazione lineare, patinata, rassicurante e normalizzante. Il libro saggiamente non percorre questa strada e non ottiene questo effetto. E, tuttavia, in conclusione del libro l’autrice si interroga implicitamente su questo tema quando analizza l’impatto delle narrazioni e della commercializzazione mainstream sulla sottocultura drag: “Vi è […] rischio che l’autenticità, la ribellione e la libertà dei corpi perdano il proprio senso e diventino merce, che si rafforzino concetti di eteronormatività spettacolarizzando il mondo queer e rendendolo vivo e reale solo dietro a uno schermo. […] Il rischio di depauperare un fenomeno così ricco di sfumature incombe di sicuro ma viaggia sugli stessi binari della possibilità di diffondere i suoi valori e di smuovere una profonda curiosità da parte dello spettatore” (pagina 211).

Marta Capesciotti inFEMMINISMO Q.B., DWF (133) 2022, 1

[1] Halberstam, J. (2021), Gaga Feminism. Sesso, genere e la fine della norma, Asterisco Edizioni.