Cambiare (il) lavoro. Indagine tra necessità e desideri, a cura di Roberta Di Bella e Romina Pistone, Qanat Edizioni, 2016

«La precarietà del lavoro ha fatto riemergere in loro (le donne più giovani) una spinta verso l’emancipazione a tutti i costi, così disperata da costringerle a mettere tra parentesi – e non senza dolore – la liberazione come cura e tempo di sé, come fantasia di un progetto di vita, quella utopia del presente che la mia generazione politica aveva ritenuto acquisita per sempre».

Questa frase di Emma Baeri Parisi, nella premessa che apre Cambiare (il) lavoro. Indagine tra necessità e desideri è un buon punto di partenza per immergersi in questo libro a cura di Roberta Di Bella e Romina Pistone. E’ un buon punto di partenza perché questa ricerca disperata dell’emancipazione nel lavoro, che soffoca ogni altra aspirazione, per la propria vita e per il mondo tutto, è strettamente connessa alle tante domande e analisi proposte dai vari interventi che compongono il libro, ma anche a tanti dei percorsi politici e delle riflessioni che negli anni le donne hanno portato avanti attorno al tema lavoro.

Le voci che compongono il libro raccontano di un lavoro vissuto spesso dalle donne come un tutto o niente: il lavoro c’è a condizione di un investimento totale, del portare tutte le proprie competenze e i propri saperi al mercato, della rinuncia al tempo per sé, del pensare l’autonomia economica e dell’accettare la realizzazione professionale come unica misura del proprio valore (Teresa Di Martino); viene meno se si fa resistenza a un’organizzazione del lavoro presunta neutra e in realtà costruita su un modello maschile, che riproduce le disuguaglianze di genere e che, nel contesto della crisi e delle politiche di austerità, finisce anche per rafforzare l’eterosessualità come norma prevalente (Gabriella Paulì).

Ci sono anche voci di donne che riescono a «giocare in positivo lo strano vantaggio di una cittadinanza mai compiuta fino in fondo e di un adeguamento al mondo del lavoro che ha sempre prodotto degli scarti e dei residui di non appartenenza», donne che immaginano e fanno camminare nel mondo nuove forme e organizzazioni del lavoro possibili (Sandra Burchi). Sono racconti di donne che giocano la loro partita a latere, partendo dal lavoro da casa, dall’autoimprenditorialità  e dall’associazionismo, ma allo stesso tempo attaccano le fondamenta del sistema economico attuale, perchè puntano a scalzare l’idea del lavoro come affermazione individuale a favore di una produzione collettiva di reddito e di senso (interviste alle cofondatrici del coworking Re Federico e a una delle cofondatrici dell’organizzazione no profit SEND).

Per tante donne, però, il lavoro si dà come un aut aut tra un’inclusione pagata al prezzo di autosfruttamento e disponibilità permanente e una marginalità imposta dalla precarietà, da politiche di austerity che colpiscono soprattutto i settori a maggior presenza femminile e il welfare, dall’appiattimento sui ruoli domestici e di cura.

In questo quadro è possibile leggere anche la minore partecipazione alla politica e all’attivismo menzionata da molte delle sindacaliste intervistate nel libro; il ripiegamento sulla vita familiare come rifugio o compensazione, come forma di «sciopero silenzioso nei confronti di un mondo del lavoro che sottrae, in realtà ogni possibilità di scelta», descritto da Annalisa Tonarelli; i dati  riportati da Antonella Elisa Castronovo e Marco Pirrone sul lavoro femminile nel Mezzogiorno, precario, ricattabile, mal pagato, marginale rispetto agli impegni familiari.

Quasi al termine del libro, dopo aver ascoltato voci e punti di vista differenti su come le donne vivono, soffrono e cambiano il lavoro, dalla rappresentanza sindacale al lavoro da casa, dalle lavoratrici migranti all’impatto delle politiche economiche sul gender order, a lettura ormai quasi ultimata arriva a sorpresa un racconto che dice di un’esperienza che mancava in questa Indagine tra necessità e desideri: la maternità.

In genere quando si discute di maternità e lavoro femminile si parla soprattutto del fronte necessità, di conciliazione, di welfare, di dimissioni in bianco, di mobbing e di carriere che naufragano all’arrivo di un figlio. I desideri, invece, rimangono spesso nel non detto. Il desiderio di avere figli anche se significa mettere temporaneamente il lavoro in secondo piano, anche se non ci sono le condizioni materiali per poterselo permettere, il desiderio di tornare al lavoro per non finire schiacciate in una maternità che diventa unico orizzonte, oppure un’altra delle tante opzioni possibili.

Forse in questo libro la forma del racconto ha il compito di segnalare che, come per l’esperienza del lavoro sono stati necessari anni di narrazione sulla precarietà e sull’autosfruttamento, sulle aspettative e sulle delusioni, prima di produrre e mettere in campo analisi e pratiche politiche, ora c’è di nuovo bisogno di partire dalle storie, dai corpi e dai vissuti, per rimettere insieme parole sui desideri a partire dalle quali fare leva per recuperare quella «liberazione come cura e tempo di sé, come fantasia di un progetto di vita, quella utopia del presente» di cui parla Emma Baeri Parisi.

In fondo, se nel loro insieme gli interventi propongono soprattutto suggestioni e domande, più che risposte sui possibili percorsi per Cambiare (il) lavoro, da molti dei testi arriva con forza una chiamata: quelle di «assumere il punto di vista della cittadinanza incompiuta che individua il rapporto tra donne e lavoro» per provare a rispondere alla domanda «come vogliamo vivere insieme?» (Federica Giardini). E di considerare la posizione di una donna «come la posizione da cui pensare una giustizia per tutti» (Teresa Di Martino).

Angela Lamboglia in DWF (112)Dalla parte delle eroine. Istruzioni per l’uso, 4, 2016