Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante. Valeria Ribeiro Corossacz, Mimesis, Milano, 2016

L’antropologia, come in una sorta di nemesi, esercita spesso un fascino esotico legato alle culture “altre” di cui si è sempre occupata. Popoli lontani, civiltà diverse, differenze incredibili, studio della subalternità, questo il campo di ricerca noto ai più di una disciplina dalla storia lunga e complessa.

Storicamente l’antropologia ha sempre studiato l’“altro”, definendolo attraverso una comparazione con il sé dell’antropologo che per molto tempo è stato occidentale, bianco e maschio. Le culture studiate, a loro volta, erano considerate semplici, ferme in un eterno presente che assomigliava al nostro passato, in sostanza primitive; adatte quindi ad essere comprese attraverso il costante confronto con le società complesse, rappresentate da un “Occidente” anch’esso in realtà stretto in un insieme indefinito. Quando l’antropologia occidentale ha volto lo sguardo anche al proprio interno, l’ “altro” è stato rappresentato dai contadini, gli operai, i migranti, i cosiddetti subalterni rispetto all’egemonia dominante. In qualche modo lo studio della marginalità ha caratterizzato la ricerca antropologica.

Ovviamente il percorso storico e teorico della disciplina non è facile da riassumere, in debito con i momenti storici che ha attraversato, ha visto l’elaborazione di diversi e raffinati approcci metodologici e scuole di pensiero.

Resta però comune l’idea, dal non tanto vago sapore positivista, che si debba privilegiare quanto di più lontano da noi per avere quel distacco che consenta lo studio e l’analisi di un fenomeno; difficile quindi immaginare che l’antropologia possa rivolgere il suo interesse ai cosiddetti gruppi dominanti.

Eppure è ciò che fa Valeria Ribeiro Corossacz nella sua ricerca etnografica, andando a sfidare su più piani la disciplina antropologica e il luogo comune. Il bel libro, Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante, non solo lascia emergere l’egemone, come annunciato nel titolo, ma mette in gioco il concetto di bianchezza ancora poco conosciuto e usato nell’antropologia italiana. Infine analizza la mascolinità di soggetti bianchi, di classe medio alta, portando al centro del lavoro le relazioni di genere: nella definizione dei soggetti stessi e nella relazione tra questi e un’antropologa donna.

Bianchezza è la traduzione dall’inglese del termine whiteness e fa riferimento a quell’orizzonte di studi denominato critical whitness studies nati negli Stati Uniti, intorno agli anni Novanta. Un insieme eterogeneo e non monolitico di ricerche, in cui sovente convivono la prospettiva storica e quella antropologica, che condividono come perno di interesse l’analisi dei processi storici e sociali di classificazione dei gruppi dominanti; non indica quindi il colore di pelle, quanto la posizione sociale di chi ha il potere nelle società nate dall’esperienza colonialista e costruite su un razzismo strutturale. La posizione e la produzione del discorso del gruppo dominante all’interno di tali realtà diventano una chiave di lettura fondamentale per comprendere il presente; porre al centro il discorso coloniale costringe ad un’analisi della modernità che non può considerare il colonialismo una fase storica conclusa, né il discorso colonialista come qualcosa di superato.  In questa prospettiva infatti non è più un evento storico tra i tanti ma un elemento fondante del presente e delle narrazioni nazionali di “comunità immaginate”, come intese da Benedict Anderson. Per quest’ultimo i concetti di nazione e nazionalismo, sono dei prodotti culturali e per poterli interpretare è utile considerare come sono nati storicamente e in quale modo sono cambiati nel corso del tempo. Il colonialismo è prima di tutto un discorso dotato di un proprio linguaggio che ha formato diverse narrazioni nazionali, e che vede nella relazione tra opposizioni la sua base, principalmente tra un sé ed un altro da sé. Tra l’essere bianco e l’essere nero. Ma chi è l’altro?

Attraverso il concetto di bianchezza notiamo che la “razza” è sempre qualcosa che si riferisce a coloro che sono subalterni rispetto a chi detiene il potere. Anzi, solitamente, il gruppo dominante non pensa a se stesso come ad un insieme da definire ma come un universale neutro che definisce gli altri, in una sorta di occultamento del Sé.

Parlare di bianchezza in relazione al Brasile spalanca le porte ad una realtà sconosciuta a molte e molti di noi, poiché emerge con chiarezza la “comunità immaginata” brasiliana che si rappresenta come una comunità che trae forza e originalità dal suo essere meticcia. Peccato che accanto a ciò emerga un altro tratto nazionale che storicamente si colloca tra il XIX e il XX secolo: il branqueamento. Una teoria nata dall’ideologia razzista (all’epoca considerata “scientifica”) che riteneva necessario avere cittadini bianchi che con il tempo, unendosi ai locali, avrebbero consentito uno “sbiancamento” dell’intera società. Un vero e proprio discorso sulla razza che nutrirà un progetto politico di gestione dei flussi migratori per favorire l’ingresso degli europei in Brasile.

Se per gli intervistati “essere bianchi” è un essere neutri, c’è invece una certa consapevolezza sulla questione di classe, che rappresenta uno snodo fondamentale nelle interviste raccolte. Il privilegio viene riconosciuto ed è legato all’appartenenza sociale, mai alla questione razziale. La bianchezza innominata si muove in bilico tra classe e colore, mettendo inoltre in evidenza come si intersechi ad altre variabili che, attraverso il libro di Valeria Ribeiro, vengono narrate con chiarezza e profondità scientifica al tempo stesso. L’autrice non può intervistare uomini bianchi di classe media, senza che si affaccino altri fattori socio antropologici quali genere, sessualità, classe, religione, nazionalità che trasformano l’indagine in un insieme più complesso.

Nell’analizzare sessismo, razzismo e differenza di classe viene in aiuto a questo denso lavoro antropologico la teoria dell’intersezionalità, uno degli strumenti più usati dalle femministe contemporanee, per comprendere le forme multiple di oppressione delle donne – genere, colore, classe, sessualità – intese però come processi sociali e non elementi statici e immutabili. Anche se qui l’etnografia non è sulle donne l’approccio si rivela utile all’indagine.

Intento del lavoro quindi non è la mera restituzione di esperienze di bianchezza e mascolinità ma la comprensione dei meccanismi soggiacenti che riproducono razzismo e sessismo nella società brasiliana. Come la classe sociale un altro elemento che viene riconosciuto e anzi sottolineato è l’appartenenza al mondo maschile e ai modelli di riferimento che costruiscono la mascolinità. Quando gli intervistati raccontano cosa vuole dire essere uomo, il tono è scherzoso, quasi di autocompiacimento nel ricordare la propria adolescenza e quella che viene definita una sorta di “iniziazione sessuale”. Da tutti viene raccontato un “istinto” alla sessualità che bisogna soddisfare attraverso un addomesticamento che non riguarda se stessi ma l’oggetto da addomesticare. L’altro diventa quindi “altra”, un oggetto sessuato e come vedremo spesso nero. Infatti, malgrado i pochi riferimenti espliciti al colore, l’inizio della vita sessuale è per molti con una donna nera, di classe popolare e al proprio servizio: l’empregada.

Questa parte dell’etnografia che racconta una chiara forma di violenza e sopraffazione permette di esplorare un rapporto spesso lasciato in ombra quando si parla delle lavoratrici domestiche. Il rapporto di potere viene descritto come inevitabile, nell’ordine delle cose, anche quando c’è consapevolezza della violenza perpetrata. Non tutti gli intervistati hanno avuto una esperienza con una lavoratrice domestica e ovviamente non sempre queste donne sono nere ma resta il fatto che la figura dell’empregada diventa anello della continuità tra passato coloniale e presente.

Infine, c’è la presenza problematizzata di un’antropologa donna sul campo. Quest’ultimo fattore è insieme alle questioni di genere ancora troppo trascurato dall’antropologia italiana. Un motivo in più per il quale questo libro ha un particolare valore.

Serena Fiorletta in DWF (108) Fino all’ultima riga, 4, 2015