Voci migranti, 2006, n. 3-4 (71-72)

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NOTA EDITORIALE, di Paola Bono e Federica Giardini

MATERIA

POLIEDRA

SELECTA



NOTA EDITORIALE

Voci Migranti
di Paola Bono e Federica Giardini

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"Pensiamo sia sotto gli occhi di tutte e tutti il paradosso che vede coesistere conflittualmente due processi. Da un lato quello, costantemente in fieri (di cui testimoniano ad esempio il recente, sebbene non completo, ingresso nella UE di Bulgaria e Romania), di allargamento dell’Europa – e già sulla possibile definizione di questo termine, in prospettiva storica e di sviluppi e intrecci culturali, si aprirebbe una serie di questioni assai complesse. Dall’altro la tensione alla sua chiusura difensiva, al suo farsi “fortezza” di fronte all’impatto crescente di movimenti migratori legati a situazioni di povertà e di guerra. Sono problemi e fenomeni di portata mondiale, che in quanto tali necessitano di analisi politiche e socioeconomiche di largo respiro, ma che hanno anche ricadute nel quotidiano, nel nostro quotidiano fatto di incontri, di letture, di visioni – e di domande.

Incontri. Fugaci, come con le molte donne cinesi e indiane che lavorano in piccole imprese a conduzione familiare: negozi, lavanderie, ristoranti… Ravvicinati, come con la signora rumena che da alcuni anni assiste la madre di una di noi, o con le colf che ci puliscono casa – ucraine, colombiane, filippine… – per lo più donne adulte, già con una vita alle spalle e ognuna con la sua storia di separazioni e fatica ma spesso anche di scoperta e emancipazione: storie che vogliono e sanno raccontare quando appena ne appaia l’occasione, aprendoci orizzonti diversi."...

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Politiche dell'incontro
di Maria Vittoria Tessitore e Monica Luongo

Maria Vittoria Tessitore, coordinatrice del Master in “Politiche dell’incontro” (Università Roma Tre), e la sua collaboratrice Monica Luongo discutono le premesse, le difficoltà, i successi e le modifiche del progetto volto a formare delle professionalità in grado di operare nel campo della mediazione e della consulenza in campi dove l'incontro fra culture gioca un ruolo importante.

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La guerra dei migranti

di Aminata Dramane Traorè

L'autrice, conosciuta per il suo impegno nella politica del new global, denuncia la violenza esercitata contro il popolo africano il popolo africano che cercava di raggiungere l'Europa dai possedimenti spagnoli di Ceuta e Melilla. Convinta dell'importanza del ruolo delle donne nella costruzione di una nuova politica per l'Africa, sostenitrice di un movimento libero dalle imposizioni delle organizzazioni internazionali, le cui politiche hanno effetti negativi sia sugli uomini che sulle donne di ogni Paese africano.

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Letteratura della migrazione tra arte e testimonianza

di Lidia Curti

Analizzando testi di poesia e narrativa e proponendo una riflessione teorica sui campi in gioco, l'autrice traccia una mappa di scrittrici migranti che hanno scelto di usare la lingua italiana: una letteratura diasporica che include sia una letteratura post-coloniale (in relazione alle colonie italiane in Africa), sia quella nata dalla migrazione in generale (in relazione alla presenza in Italia di migranti da diverse aree del mondo).

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Lingua madre - Racconti di donne straniere in Italia

di Ferdinanda Vigliani

I principi guida del Concorso letterario nazionale "Lingua madre" si ispirano alla consapevolezza sia della differenza sessuale come fondamento della libertà della donna, sia delle differenze tra donne con le loro molteplici realtà. Il concorso si svolge in Italia e la lingua è l'italiano ma diventa difficile esprimersi in italiano quando la propria lingua madre è il vietnamita, il bengalese, l'arabo...Chiedere aiuto ad una donna italiana è una consuetudine accettata nell'ambito del concorso senza che questo comporti una perdita di identità; al contrario, nella relazione con l'altra, la propria identità acquista forza e apertura.

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Lingua madre - Le donne si raccontano

di Daniela Finocchi

La spinta motivazionale del Concorso letterario nazionale "Lingua Madre" è quella di offrire un'opportunità alle donne straniere di parlare per e di sé stesse. Le donne straniere e quelle italiane ancora una volta confermano la loro comune appartenenza - oltre le differenze generazionali e culturali - alla genealogia femminile proposta da Irigaray e dalla filosofia italiana della differenza sessuale.

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Migrazione come utopia

di Raffaella Fiori

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L'autrice - indiana di nascita ma adottata da una famiglia italiana quando aveva due anni - riflette sul viaggio compiuto da un ventre a una carenza mediata e ricostruita attraverso i corpi delle donne, fino ad arrivare alla madre (adottiva) che non vorrebbe mai lasciarla. Ma dalla piena consapevolezza di questa condizione l'autrice ha creato un nuovo viaggio, sia simbolico che fisico, dall'Italia all'India.

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Il treno delle meraviglie

di Tina Hajon

Tina Hajon, una giovane croata andata via di casa ai tempi del conflitto politico ed etnico, racconta la storia dei suoi anni a Roma alla ricerca dell'indipendenza e della realizzazione professionale. Si è scontrata con le barriere burocratiche, culturali e linguistiche, affrontando le sue paure e rimettendo costantentemente in discussione sé stessa e i suoi valori, ma lentamente è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi.

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Scritture dell'alterità

di Nadia Setti

Il linguaggio è segno e sintomo dell'appartenenza simbolica a un paese simbolico come una complessa rete di identificazioni e disidentificazioni. Partendo da queste premesse, Setti legge una serie di testi (da Cixous, Derrida, Djebar, Mokeddem, Sebbar) che esplorano il significato delle parole per raccontare la relazione di ognuna con le proprie radici perse, moltiplicate, ritrovate.

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Figurazioni del "noi"

di Liliana Maina

Prendendo le mosse dal pensiero di filosofe femministe italiane come Boccia, Cavarero, Muraro, l'autrice analizza la presenza e le modifiche del soggetto plurale - (un gruppo di) donne come un "noi" - nei testi delle scrittrici italiane del ventesimo secolo, sia di racconti (di De Cespedes, Maraini, Ramondino, Santoro, Simonetti) sia di scritti autobiografici di Lonzi, Baeri, Passerini.

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Recensioni

di Curti

GIULIANA BRUNO, Atlante delle emozioni, Milano: Bruno Mondadori, 2006, pp. 471

"Questo libro è tanti libri insieme...La narrazione dell’esilio dell’autrice diviene testo filmico accanto ad altri, Rossellini, Martone… Si ha così la corporeizzazione di un percorso intellettuale, in cui Giuliana Bruno ha esposto il suo corpo sulla tavola anatomica, nella geografia della tenerezza, su un atlante emotivo.
Punto di convergenza dei discorsi è il cinema che era al centro dell’altro libro di Giuliana che vorrei qui ricordare perché a me molto caro (una lunga recensione su DWF, n. 17, 1993, che è diventata punto di incontro tra me e lei) ma anche perché è molto importante ricordare una poetica, importante visione di Napoli in questo momento, a spezzare il cerchio del genere pernicioso “discorso su Napoli” che di tanto in tanto per motivi non del tutto onorevoli si trasforma in uno dei tanti panici morali, nutrimento dei media e di quella grande internazionale che è la piccola borghesia...

Il libro esplora l’incontro tra cinema e architettura, cinema e arte in tutte le direzioni: arte come architettura filmica, o cinema come architettura visuale...Per Giuliana la carta della tenerezza, frutto di una scrittura femminile in uno spazio collettivo esclusivamente femminile, indica una topografia dei sentimenti, delle passioni e materialmente dipinge lo spazio del grembo femminile, vasi sanguigni, utero, apparato riproduttivo, solido e liquido assieme: spazio come corpo, corpo come mappa; spazio relazionale, della intersoggettività tra donna e donna..." (Lidia Curti)

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Le autrici


Maria Vittoria Tessitore insegna nel corso di laurea in Dams dell’Università Roma Tre, dove svolge una intensa attività nel settore delle Relazioni Internazionali, e dove ha creato e coordina il Master in “Politiche dell’Incontro”.
Ha pubblicato saggi sul teatro elisabettiano e, con Paola Bono, "Il mito di Didone" (Bruno Mondadori, 1998).


Monica Luongo, giornalista, ha lavorato all’Unità. Oggi si occupa di donne e sviluppo per la cooperazione italiana, è osservatrice elettorale per l’Unione europea e l’Osce, e collabora al Master in “Politiche dell’Incontro” dell’Università Roma Tre. È presidente della “Società italiana delle letterate”, ha contribuito a creare il sito “DeA: donne e altri” e collabora alla rivista Leggendaria.


Aminata Dramane Traoré, tra le fondatrici del Social Forum Africano e del Forum per l’Altro Mali e ex ministra della cultura del Mali, è consulente per diversi organismi internazionali. Dirige il Centro Amadou Hampâté Bâ per lo sviluppo umano; ha scritto Le viol de l’imaginaire, Lettre au président des français à propos de la Côte d’Ivoire et de l’Afrique (Fayard 2005).


Lidia Curti, a lungo docente di Letteratura inglese presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, è figura di rilievo nell’ambito degli studi culturali e post-coloniali. È autrice di "Female Stories, Female Bodies" (Macmillan, 1998) e di "La voce dell’altra". Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale (Meltemi, 2006); ha curato con Silvana Carotenuto, Anna De Meo e Sara Marinelli "La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo" (Liguori, 2004).


Ferdinanda Vigliani, attiva nella politica delle donne dal 1972, ha partecipato a un gruppo di autocoscienza di Rivolta Femminile. Dal 1998 tiene seminari per la Facoltà di Psicologia di Torino con cui ha realizzato una ricerca su giovani e identità di genere (Non è per niente facile, Rosenberg&Sellier, 2003). Tra le fondatrici del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino, ne è presidente dal 2004; ha pubblicato saggi critici, condotto progetti UE e curato la guida 100 Titoli (Tufani, 1998).


Daniela Finocchi, torinese, giornalista, laureata in Scienze Politiche. Ha fatto parte del Coordinamento Giornaliste del Piemonte (1979) e del Collettivo “Bollettino delle Donne” (1979-1991), lavorando nella redazione della rivista omonima; è stata socia fondatrice a Torino del Coordinamento contro la Violenza (1983), di Telefono Rosa (1993) e del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile (1995).


Maria Raffaella Fiori, 25 anni, laureata in Filosofia presso l’Università Roma Tre con una tesi su Paulin J. Hountondji e le origini della filosofia africana. Collaboratrice di DWF, ha partecipato alla messa in opera del XII Simposio IAPh. Ha un attestato di Mediatrice Interculturale e dedica cura e azione ai problemi politici e sociali legati ai migranti. Lavora nel Collettivo di Lettere e Filosofia portandovi le istanze di una politica più partecipata e critica.


Tina Hajon
, croata ma nata a Milano nel 1976, dopo aver conseguito il diploma del ginnasio della cultura a Zagabria si è trasferita a Roma dieci anni fa. Laureanda nel Corso di laurea in Dams (percorso Organizzatore Cinema e Audiovisivi) presso l’Università Roma Tre, collabora con strutture cinematografiche e televisive.

Nadia Setti, è docente di Letterature comparate e Studi femminili al Centre de Recherche d’Etudes Féminines, Università Paris 8. Autrice di saggi su scrittura e differenza sessuale (“Figure e transfigure della differenza”, in Scritture del corpo, a cura di Paola Bono, Sossella, 2000) e su lettura e traduzione (“Transreadings”, in Joyful Babel. Translating Hélène Cixous, Rodopi, 2004), ha tradotto in italiano testi di Antoinette Foque e di Hélène Cixous.


Liliana Maina
, si è laureata in Lettere all’Università di Torino nel 2005. Attualmente lavora alla Libreria e Centro culturale La Torre di Abele, sempre a Torino.

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Gli articoli in versione integrale scelti per questo numero

Nota editoriale, di Paola Bono e Federica Giardini
Migrazione come utopia, di Raffaella Fiori


Nota editoriale
Voci migranti

(di Paola Bono e Federica Giardini)

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Pensiamo sia sotto gli occhi di tutte e tutti il paradosso che vede coesistere conflittualmente due processi. Da un lato quello, costantemente in fieri (di cui testimoniano ad esempio il recente, sebbene non completo, ingresso nella UE di Bulgaria e Romania), di allargamento dell’Europa – e già sulla possibile definizione di questo termine, in prospettiva storica e di sviluppi e intrecci culturali, si aprirebbe una serie di questioni assai complesse. Dall’altro la tensione alla sua chiusura difensiva, al suo farsi “fortezza” di fronte all’impatto crescente di movimenti migratori legati a situazioni di povertà e di guerra. Sono problemi e fenomeni di portata mondiale, che in quanto tali necessitano di analisi politiche e socioeconomiche di largo respiro, ma che hanno anche ricadute nel quotidiano, nel nostro quotidiano fatto di incontri, di letture, di visioni – e di domande.

Incontri. Fugaci, come con le molte donne cinesi e indiane che lavorano in piccole imprese a conduzione familiare: negozi, lavanderie, ristoranti… Ravvicinati, come con la signora rumena che da alcuni anni assiste la madre di una di noi, o con le colf che ci puliscono casa – ucraine, colombiane, filippine… – per lo più donne adulte, già con una vita alle spalle e ognuna con la sua storia di separazioni e fatica ma spesso anche di scoperta e emancipazione: storie che vogliono e sanno raccontare quando appena ne appaia l’occasione, aprendoci orizzonti diversi.

Sono quelle che un saggio da noi pubblicato un paio di anni fa (Marchetti 2004) chiamava “le donne delle donne”, in una lettura del fenomeno che aveva

il sapore, acre e incisivo, di una provocazione [… su] una questione spinosa, quella della divisione del lavoro di cura nei ruoli tradizionali che l’occidente e la cultura patriarcale assegna alle donne, qui ulteriormente ribadita nella sua redistribuzione tra donne emancipate e donne immigrate.
(Fortini 2004, p. 68)


Ma anche incontri con donne più giovani, a volte appena intraviste dal finestrino di una macchina lungo una delle vie consolari, mentre si prostituiscono – rinnovato commercio di corpi femminili che rimette in gioco antichi dibattiti sul significato e sulle condizioni materiali del “lavoro del sesso”, nella forbice tra sfruttamento e possibile scelta. Altre volte conosciute all’Università mentre, nell’arrabattarsi in lavori sottopagati e clandestini, studiano con determinazione per raggiungere i propri obiettivi di vita.

Letture. I giornali, naturalmente, ogni giorno pieni di notizie – per lo più tragiche - sull’immigrazione: dai naufragi su barche vecchie e stracariche agli orrori di luoghi concentrazionari, dalle morti sul lavoro agli episodi di crescente razzismo. Ma ci sarebbero anche i molti studi che analizzano il fenomeno migratorio e le sue cause, sia nelle sue forme presenti che nelle precedenti “ondate”, quando i paesi di destinazione erano gli Stati Uniti e l’Australia, e in Europa la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e la Germania, e dall’Italia invece si partiva. Studi che in anni recenti hanno cominciato a “vedere” le donne e a rendere conto della varietà di motivazioni che le portano a lasciare il proprio paese, delle diversità tra loro – non solo in termini di provenienza, geografica e culturale, ma di storie di vita, livello di educazione, aspettative realizzate o deluse o in mutazione – e dei modi in cui le trasforma l’esperienza di un così profondo cambiamento di vita. Si è cominciato a mettere a tema l’importanza della differenza di genere per capire davvero le forme e i modi in cui si delineano, agiscono e si modificano “confini” reali e simbolici: culturali, nazionali, etnici, religiosi… E a mettere in questione associazioni frequenti nel discorso contemporaneo sulla migrazione, per cui metafore di modernità, scelta e movimento sono invariabilmente legate agli uomini e alla mascolinità, mentre

metafore di tradizione, coercizione e casa vengono associate alle donne e alla femminilità. Gli uomini sono rappresentati come pionieri attivi, in controllo del proprio destino, mentre le donne, speso in combinazione con i bambini (“donneebambini”) sono viste come vittime: sradicate, isolate, piene di nostalgia.
(Davis e Lutz 2000, p. 260)


Nello stesso numero dello European Journal of Women’s Studies dal cui editoriale è tratta questa citazione, numero dedicato alle “Donne in Transito”, l’antropologa palestinese Ruba Salih parla delle donne marocchine che lavorano come colf in Italia, mostrando i differenti modi in cui rinegoziano la propria identità musulmana e criticando da un lato un’idea di “comunità” come corpo definito e omogeneo – secondo la tendenza di un multiculturalismo che si potrebbe definire immobilista se non addirittura reazionario – e dall’altro la celebrazione della figura migrante in funzione anti-essenzialista; entrambi atteggiamenti che non prendono davvero in carico la complessità dei processi di costruzione dell’identità. La rinegoziazione generata dall’incontro reale e concreto tra donne di provenienze diverse investe in modo inedito la riflessione teorica; ancora Ruba Salih, nel suo recente contributo al volume Altri femminismi (2006), articola con finezza il rapporto tra femminismo, laicità, cultura musulmana e fede italica nei dibattiti extraeuropei, che – lungi dall’essere dibattiti “locali” – elaborano criticamente anche la relazione con la modernizzazione di origine occidentale. Ci si rende così conto che l’impegno delle singole donne per l’affermazione e l’espressione della libertà femminile colloca tutte ed ognuna in un mondo comune, ancora a venire, certo, ma già non più riducibile ai luoghi separati e distinti delle singole nazioni o “comunità”*.

Visioni. Lo guardo che portiamo su queste nuove vicinanze conta ormai su una risonanza visiva, che permette un respiro più ampio, anche se talora non meno inquietante, rispetto all’immediatezza dei fatti di cronaca. Negli ultimi dieci anni si sono infatti moltiplicati i film sensibili a questa nuova situazione italiana, che da paese emigrante è diventato paese di immigrazione; situazione che se non esime da una riflessione critica, perlomeno decentra l’Italia rispetto al dibattito che si svolge nei paesi ex coloniali. Difficile infatti separare nettamente gli effetti della migrazione in alcuni film in cui chi mette in immagini partecipa di un mondo comune con chi arriva ora nel nostro paese; basterà a tale proposito ricordare Lamerica di Gianni Amelio. Tra i più recenti, segnaliamo il video di Sara Marinelli, Quadri-fonia di voci migranti, definito dalla stessa autrice “un invito all’ascolto: voci di donne migranti residenti a Napoli che, simultaneamente, raccontano storie in italiano e nella loro lingua madre, suscitando uno spaesamento linguistico e acustico” e – presentati l’anno scorso alla Festa del cinema di Roma, forse casualmente tutti a firma femminile. Le dernier caravanserrail, versione filmica dello spettacolo teatrale di Ariane Mnouchkine; il corto Jamal, di Luisella Ratiglia, che sceglie di seguire un gioco di sguardi, e il suo esito, tra un uomo arabo e una donna italiana; Il mondo addosso di Costanza Quatriglio, che dispiega presente passato e futuro, ovvero l’arrivo, la provenienza e le prospettive di giovanissimi immigrati di diversi paesi; Ritorni di Giovanna Taviani, che restituisce per immagini la ritessitura di una separazione, il viaggio annuale verso il paese d’origine degli immigrati tunisini, dopo la sfida “finita bene” della partenza.

Domande. Tante, che certo potrebbero in buona parte trovare risposta appunto dedicandosi a fondo alle letture sopra appena accennate; ma anche più immediate e perfino confuse, una curiosità senza definizione nel suo carattere di bisogno esistenziale, che è quella che ci ha mosso a pensare questo numero e a pensarlo a partire da alcune voci femminili che potevano aprirci delle prime, parzialissime, “finestre” sulla presenza accanto a noi di tante donne venute da lontano. Un bisogno che già ci aveva spinto ad aperture di indagine su culture diverse – il numero Luci d’oriente, (n. 1, 2005) e i contributi su Werewere Liking e Odile Sankara nei numeri Mostrare il cambiamento. Donne politica spettacolo (n. 4, 2005, n. 1, 2006). Non riprendiamo in questo numero la questione davvero spinosa di cui si diceva all’inizio, del rapporto tra “emancipate” e “immigrate” – troppo spesso viste come blocchi senza articolazioni interne – affrontata anche da un libro di qualche anno fa e allora molto discusso, Donne globali. Tate, colf e badanti (Ehrenreich e Hochschild 2004).

Ci è interessato di più ancora una volta, come è nello stile di DWF cercare l’intreccio tra sguardo d’insieme e racconto in soggettiva. Da un lato, dunque, l’appello – denuncia e richiesta – di Aminata Traoré sulle condizioni dei migranti d’Africa, che fa scaturire l’analisi e l’azione politica dagli stessi racconti di scontri e vessazioni alla frontiera di Ceuta e Melilla, e il colloquio tra Maria Vittoria Tessitore, che all’Università degli Studi Roma Tre ha pensato e coordina il Master “Politiche dell’incontro e mediazione culturale in contesto migratorio: pratiche dei saperi e dei diritti per una nuova cittadinanza” e Monica Luongo, che da qualche anno vi insegna. Dall’altro le narrazioni di Tina Hajon, giovane donna croata che dopo anni di problemi e ostinazione ha raggiunto la laurea e il lavoro che voleva, e di Raffaella Fiori, strana migrante che, giunta in Italia ad appena due anni per essere adottata, racconta il suo viaggio al contrario verso la conoscenza dell’India di origine; e il resoconto a due voci di Ferdinanda Vigliani e Daniela Finocchi sul concorso letterario “Lingua madre”, nonché l’appassionata analisi che Lidia Curti offre sulla nuova “letteratura diasporica” di migranti che scrivono in italiano.

NOTA

*
Molti altri titoli potremmo citare, la letteratura in proposito si arricchisce ogni giorno di più: tra gli ultimi vanno segnalati almeno Cambi, Campani e Ulivieri (2003), Mariti (2003), Decimo (2006), Pojmann (2006).

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Migrazione come utopia

(di Raffaella Fiori)

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Viaggi per rivivere il tuo passato? era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
(Italo Calvino, Le città invisibili)


Sono nata in India, adottata a poco più di due anni da una coppia italiana – per me sono mia madre e mio padre – e da allora ho vissuto in Italia; qui sono cresciuta e mi sono formata, frequentando le scuole italiane, avendo l’italiano come “lingua madre”, senza davvero consapevolezza di una diversa origine. Se solo pochi anni fa qualcuno mi avesse chiesto di scrivere sui migranti, avrei pensato a una lunga dissertazione sul significato della parola, sulle sue implicazioni sociali e storiche, sul modo di essere migranti degli italiani e sul loro rifiuto e disconoscimento attuale, quasi attuassero una rimozione: l’avrei pensato da ragazza italiana di meno di 25 anni, bianca.

Oggi mi guardo allo specchio e mi riconosco nera.
Questo mi porta ad un approccio tutto nuovo alla domanda: “Scrivi sui migranti?”. Mi costringe a chiedermi io cosa sia, in un girotondo estenuante di riconoscimenti e sovrapposizioni.

C’è un intrusione costante del mondo esterno, da quando riesco a ricordare, che ha cercato con perentorietà di riaffermare una mia estraneità – che io invece non sentivo – all’Italia dei miei genitori, dei miei nonni, della mia vita. Sono passata da maestre delle elementari che pretendevano conoscessi la situazione politica indiana a sei anni, a compagni di classe che con un po’ di confusione ululavano davanti a me scimmiottando pose da nativi americani, passando per le domande di extra-comunitari che si riconoscevano nel mio colore ma non nel mio modo di portarlo, per la curiosità maleducata di chi, credendosi a casa propria, pensa che perché diversa probabilmente non saprai neanche leggere, fino alla violenza verbale di un poliziotto. Sarà stato questo affastellarsi di eventi, questo cogente richiamo esterno a dar voce a qualcosa che mi ribolliva dentro, a farmi compiere quest’estate un viaggio, una migrazione contraria ai consueti flussi, verso il luogo dove tutto era cominciato.

L’India mi ha accolto sconcertandomi e infastidendomi come se ci fosse qualcosa di troppo doloroso da cui mi si dava l’ultima occasione di scappare. Sarà che lì per lì non l’ho capito, sarà che dentro la voglia era più forte, sono rimasta. Per chi la conosce sarà facile immaginare il clima di Mumbay a fine luglio, ma per chi non vi avesse mai messo piede si immagini il caldo di alcune serre con l’umidità delle piscine in quel piccolo corridoio che di solito porta dagli spogliati alle vasche, tutto molto, molto amplificato. Mumbay alle cinque di mattina si è aperta ai miei occhi appiccicosa, inospitale, povera e dolorante. Neanche cinque ore dopo eravamo a Cochin. È lì che è cominciata la mia storia personale ed è lì che è cominciato il mio migrare per una terra immensa e fino ad allora vista da lontano, senza sapere né voler sporcarmi le mani. A Cochin ho cominciato subito a cercare tante piccole me camminare per strada, cercavo di riconoscermi nei sorrisi e negli occhi di chiunque incontrassi, camminavo per mano al compagno di viaggio e di vita che ho la fortuna di avere, sperando di incontrarmi casualmente sul lungomare della città.

Era stranamente simile quel lungomare a quello su cui ho passato le mie estati, cu sui mi sono emozionata e sono cresciuta in Italia, un lungomare come immagino qualunque nel mondo, con gli scogli a ridosso della strada su cui parlano amici, si perdono nell’orizzonte innamorati, corrono vocianti i bambini sotto lo sguardo benevolo e accorto dei genitori, imboniscono i passanti venditori di qualunque mercanzia. E fra questa varia umanità passeggiavamo curiosi, stanchi ed eccitati, in quello stato tipico da turisti, lui ed io. Coppia mista, strana qui e anche lì. Lui chiaramente europeo, come la sua pelle e i suoi occhi, io… io strana come indiana con i miei capelli corti, i miei jeans, la mia maglietta. Per tutto il nostro piccolo ed enorme percorso di diciotto giorni sugli autobus indiani con lo zaino in spalla, con le piogge che incombevano e un malessere nello stomaco che non era dovuto al cibo, siamo passati su quella terra. Curiosi e incuriosenti verso chiunque ci vedesse.

Sui pullman abbiamo potuto fare scorpacciate di esperienza visiva ed emotiva su ogni dosso, lentamente impiegando quattro ore per fare sessanta chilometri ma girando fra parchi e monti, vedendo scimmie sulle strade e bambini seriosi nelle loro divise che, ufficiali, portavano ancora più il segno di quella povertà diffusa che passava per i maglioncini bucati, i pantaloni troppo grandi, i faccini sporchi; donne e uomini che caricavano su quei grossi trabiccoli a quattro ruote qualunque tipo di mercanzia, a qualunque ora, per viaggi che li portavano in posti che garantivano la speranza di una stentata sopravvivenza. Un giorno un bambino mi ha chiesto di dove fossi e alla mia risposta: “Sono italiana”, mi ha guardato stupito e arrabbiato come se lo stessi deridendo – “ma se hai il mio stesso corpo?” – e lasciandomi con una sensazione di frustrata incapace possibilità di spiegare se n’è andato sulla sua bici arrugginita.

E io ho continuato a cercarmi, lasciando che piaghe dolorose fossero aperte da ogni frase che mi riguardava, da ogni spiegazione, da ogni accerchiamento curioso di bambini che non avevano mai visto un uomo bianco, in un paesino fuori dalle strade principali nell’immenso centro sud dell’India, sorridendo all’imbarazzo infastidito di lui che improvvisamente era il centro calamitante di ogni attenzione, lui che fino ad allora era la consuetudine e che diveniva in un altro mondo l’eccezione. In un mondo in cui io non ero più così differente, lui, il più simile a me di tutti i presenti, era contemporaneamente il più estraneo a tutti, me compresa. Da quando sono tornata l’India mi manca molto, non come fanno altri luoghi che ho girato, ma come se avesse ancora molto da dirmi, molto che non ho capito e che sarebbe stato importante capire, un irrisolto che senza stare in quel luogo o nel mio stare come passaggio fra due luoghi non mi sarà possibile comprendere. Dopo questa migrazione dentro di me e dentro la terra dei miei colori e dei miei sorrisi ho scoperto con maggiore stridore quanto sia impossibile per me definirmi in qualche modo. Se culturalmente sono italiana perchè formata qui, resto apparentemente e per sempre straniera e questa estraneità resta il mio più grande premio.

Fin da piccola ho imparato a rispondere e a prevenire le domande di chiunque in una litania che come ogni rituale mi salvaguardasse dall’entrare completamente nel conflitto fra il mio corpo e il suo dirsi, la mia ragione e il suo farsi. Oggi, lascio che le domande e gli sguardi non mi attraversino ma che restino e si depositano su di me. Sono in Italia con il dissidio tipico delle seconde generazioni dei migranti, quell’essere apparentemente qualcosa e culturalmente altro, ma ho come deficit nei loro confronti un’appartenenza a quel luogo che è l’origine che non potrò mai compensare, e un debito di gratitudine e di amore infinito verso la mia famiglia che non voglio disconoscere. Al convegno dell’associazione internazionale delle filosofe, svoltosi l’estate scorsa, sono stata particolarmente colpita e sollecitata dall’intervento della psicoanalista Manuela Fraire che sosteneva che nel rapporto preverbale fra madre e figlio/a si giocasse una prima formazione dell’identità.

E la mia allora? Mi sono riconosciuta migrante anche in quel particolare periodo della mia vita, perché fino ai due anni e mezzo non c’è stata alcuna figura di solida e immutata certezza ma sono passata fra più donne, che in modi diversi e con diverse occupazioni impiegavano il loro tempo con me, pagate. Sottolineo questo aspetto per dire che questa mia migrazione fra i loro corpi non era neppure data con gratuità simile al rapporto madre/ figlia, ma era un mero assolvimento del compito a cui erano state delegate. Come quindi io ho potuto costruirmi una qualche identità? Come quei primi due anni e mezzo della mia vita e i nove mesi precedenti, che la psicologia infantile scopre come fondanti e necessari per un individuo, hanno un peso in me? Sollecitata in questo stesso scrivere e dalle esperienze che ho fatto nel piccolo del mio lavoro come mediatrice culturale, mi delineo in modo sempre più preciso nella figura di una “migrante” che ha costruito nel viaggio il modo di esserci.

Il viaggio che come per tutti mi ha portato da un ventre, che sento problematico definire sicuro e accogliente, a una luce fuori, per un abbandono non stemperato dalla centralità di nessun abbraccio ma mediato e rimesso in scena dai corpi di donne che occupavano il mio, per trovare finalmente chi non mi avrebbe lasciata. Ma per conquistarmi questo stato di non abbandono ho dovuto compiere un ulteriore viaggio, sia simbolico che fisico, fra l’India e l’Italia. La mia memoria inizia da quel viaggio, da quell’aereo di cui ricordo il cielo percorso e il bagno spaventoso, dai sorrisi di chi mi aspettava all’aeroporto e in quella che per sempre, più di qualunque altra, sarebbe stata casa. Corpi che si prendevano cura di me gratuitamente, con il coinvolgimento assoluto e assolutizzante di cui avevo bisogno.

Tutto quello che ho ricevuto mi ha permesso di cancellare il disagio che tutti coloro che migrano provano, quel doversi ridire e definire per compiacere lo sguardo di chi li giudica o per contrastarlo, senza provare mai la sensazione della sola accettazione. Ma alcune delle mie scelte mi hanno portato a ridire quella certezza che avevo maturato; è stato il lavoro nelle scuole con i bambini di “seconda generazione” e il mio scontro feroce con gli educatori che sostenevano la necessità di ricordare loro che non erano italiani, e secondo loro dovevo farlo anch’io. Io dovevo dire ad una bambina di sette anni, che si era detta italiana ma che aveva la pelle nera e genitori nati in Africa, che non poteva definirsi così, a lei che qui c’è nata, io che qui neppure ci sono nata. A questo dissidio non riesco a trovare soluzione e neanche potendolo lo vorrei. Come problema voglio affrontare il mio rapporto con la cultura che fino ad ora ho sentito come centrale, con le pratiche che sperimento e con lo studio della filosofia che caratterizza il mio percorso, non voglio più che qualcosa suoni come bastante. Sento inoltre che proprio nel mio corpo di donna si gioca ancora più fortemente questo essere migrante, come luogo di un possibile passaggio di un’altra vita, sia che esso avvenga sia che non accada, ma in questa peculiare specificità dell’essere attraversata da un altro corpo e nel formarlo, vi è l’attuazione di quella precondizione che segna il mio umano agire.

Oggi sono migrante, in questa situazione di non completa appartenenza a nessun luogo e a nessun territorio, questo mi permette di fare del mio corpo UTOPIA da realizzare nella migrazione del mio vivere.

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