DWF / Mostrare il cambiamento. Donne politica spettacolo II, 2006, n. 1 (69) gennaio-marzo

DWF / Mostrare il cambiamento. Donne politica spettacolo I, 2006, n. 1 (68) ottobre-dicembre

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Approfondimenti: Luci d'oriente nel web Mostrare il cambiamento nel web

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NOTA EDITORIALE, di Paola Bono

MATERIA

POLIEDRA

SELECTA



NOTA EDITORIALE

di Paola Bono

"In questo numero di DWF si parla dell’individuazione di alcune figure di donne contemporanee significative nelle arti performative, e di altre donne capaci di far emergere la politicità del loro lavoro in termini parlanti per la nostra sensibilità. Per nostra intendendo quella di donne, ormai di diverse generazioni e sicuramente di diverse esperienze, accomunate però da una appartenenza di genere scelta e non subita, autonomamente significata nella relazione con altre, e dall’amore per la libertà femminile e per quella trasformazione di sé che chiama in causa il mondo.

Artiste di formazione diversa, provenienti da una varietà di luoghi e di culture, non necessariamente femministe (anzi, in alcuni casi – Sarah Kane, Ariane Mnouchkine – quasi infastidite dalla possibile imposizione di una connotazione sessuata al loro lavoro), donne di spettacolo in una accezione ampia del termine: drammaturghe, registe, attrici, artiste della performance, da “leggere” a nostro vantaggio, per quel di più del linguaggio artistico che sa dire oltre le intenzioni di chi dice e che – soprattutto nelle arti performative, dove il corpo è segno e significato – non può mantenere una opaca neutralità.

Alcune di queste donne sono "...Julia Varley – attrice dell’Odin Teatret; Odile Sankara e Werewere Liking– eclettiche donne di spettacolo africane; Sarah Kane e Caryl Churchill– drammaturghe inglesi di due generazioni successive; Ariane Mnouchkine – regista geniale e innovativa; Marina Abramovic´ – performer e figura di primo piano nelle arti visive".

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Rendere visibile l’invisibile: il corpo politico di Marina Abramovic'
di Cristina Demaria

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Come può una performance trasformare un corpo femminile in un corpo politico, con ciò rendendo visibili e, possibilmente, decostruiti, gli stereotipi ad esso collegati? Come può una pratica artistica - incentrata sul corpo - proporre nuove letture della soggettività ancorata a questo corpo? Iniziando da queste domande, l'articolo si concentra su alcune performances di Marina Abramovic', una visual artist serba nata in Montenegro, che ora vive ad Amsterdam. L'articolo esplora gli esperimenti della body art degli anni Settanta accompagnati da dolore, fino ai suoi lavori dedicati ai conflitti nei Balcani e ai "relational objects" degli anni Novanta.

Cercando di mostrare come il corpo diventa, in ogni singolo caso, un testo da scrivere, e dal quale iniziare a riscrivere significati e relazioni, l'articolo indica come le performances di Abramovic' possono essere esempi unici e originali di come l'identità femminile possa essere spostata, e con ciò ri-piazzata (re-interpretata), in un corpo politico (o in una politica del corpo) che sfugge ad ogni specifica "ideologia del visibile".

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Werewere Liking: un’arte del desiderio

di Sara Tagliacozzo

Werewere Liking è una scrittrice e un'artista del Cameroon che ha fondato una comunità urbana di artisti, Ki-Yi Village, ad Abidjan, in Costa D'Avorio, nel 1985. Questa comunità è diventata famosa soprattutto per il suo teatro, un caso davvero interessante di sintesi fra le riflessioni teoriche di Liking sul cambiamento della società e la rigenerazione, e l'esperienza sociale della stessa comunità. Per quasi vent'anni questo gruppo ha recitato una parte importante nella "lotta per l'identità" africana (Bhabha), resistendo all'egemonia dei discorsi nazionalisti e maschilisti.

La stretta relazione fra i discorsi di Liking e la sperimentazione del Ki-Yi Village, ha portato l'autrice a considerare l'intero fenomeno (discorso, pratica sociale e lavoro artistico) come una sorta di movimento profetico. Il profetismo di Liking ha tuttavia rivelato da solo di appartenere ad una specie particolare: un profetismo artistico. Il nucleo della sua profezia è il ruolo delle arti, e della creatività, nel processo di rigenerazione nelle società africane contemporanee.

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Caryl Churchill: nel contesto della storia

di Cristina Polverini

La fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta furono un periodo di grandi cambiamenti in tutto il mondo occidentale; il movimento studentesco, il movimento pacifista, il femminismo...e una diffusa voglia di sperimentare che si fece sentire in ogni campo artistico. Per la drammaturga inglese Caryl Churchill, gli anni Settanta furono anche un punto di svolta, personale e professionale, grazie al suo lavoro con due compagnie teatrali - Monstrous Regiment e Joint Stock - che furono entrambe impegnate politicamente e desiderose di sperimentare nuove forme e nuove tecniche.

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DWF online: la nascita di un progetto

di Rachele Muzio

Cosa significa per una giovane donna con poca esperienza del femminismo, lavorare per un sito femminista? Questa è la storia del restyling di DWF online: come tutto è iniziato da una telefonata e come si è svluppato attraverso la creazione di una nuova relazione fra la webmistress e le donne della redazione. Il lavoro in progress sul sito. La storia del crescente coinvolgimento e dell'interesse e l'attenzione dell'autrice, nei confronti di autrici, lettrici e utenti di DWF - senza tralasciare alcuni aspetti comici.

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Recensioni

di Festinese

(a cura di) GIULIA FANARA e FEDERICA GIOVANNELLI, Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, Napoli, Liguori, 2004, pp. 487

"Eretiche ed erotiche raccoglie una serie di saggi del periodo “classico” della Feminist Film Theory, argomento piuttosto trascurato dall’editoria italiana, ripercorrendo alcune delle riflessioni prodotte sul cinema nel contesto angloamericano. Il volume esplora in particolare gli anni Ottanta, quando si approfondiscono le analisi iniziate nel decennio precedente – soprattutto per quanto riguarda i dispositivi del cinema classico hollywoodiano – e arriva fino agli anni Novanta in cui si affacciano nuove questioni, come il rapporto del femminismo con il postmoderno o il femminismo posterzomondista...

...Federica Giovannelli introduce il tema centrale della Feminist Film Theory: parla di un corpo di donna che si riappropria della sua immagine, partendo dalla materialità del corpo spossessato...

...Giulia Fanara individua quattro snodi fondamentali per analizzare il discorso delle donne: liberazione, dissenso, differenza sessuale, genere...Fanara descrive poi gli obiettivi principali della Feminist Film Theory degli anni Ottanta: non definire categorie prefissate della differenza ma creare una mappatura dei modi in cui la differenza viene inscritta nella rappresentazione (rapporto tra rappresentazione e significato); dedicare uno spazio maggiore al problema del soggetto e del transito da un “soggetto della mancanza” a un soggetto femminile, femminista, lesbico, resistente. Infine Fanara arriva agli anni Novanta quando si trasforma il concetto stesso di genere, emerge quello di cyborg, si cerca una nuova definizione del politico, si prospettano altre differenze (sociali, di razza, ecc)...". (Valeria Festinese)

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Le autrici


Cristina Demaria è ricercatrice presso il Dipartimento di Discipline della Comunicazione dell’Università di Bologna, dove insegna Semiotica, Semiotica della cultura e Teoria del testo. Ha scritto Teorie di genere. Femminismo, critica postcoloniale e semiotica (Bompiani, 2003) e sta ultimando un volume sui rapporti tra genere, violenza e memoria (Testi della memoria, Carocci, 2006).


Sara Tagliacozzo è nata a Torino, dove è stata per diversi anni socia dell’associazione Almaterra. Dopo aver seguito studi di antropologia e letteratura comparata all’Università di Siena e aver conseguito un master in scienze sociali (specializzazione in antropologia sociale e etnologia) presso l’Haute Ecole en Sciences Sociales di Parigi, si è addottorata in Letterature Comparate presso l’Università di Siena, in cotutela con il dottorato in Etudes Féminines dell’Università Paris 8, con una tesi sul profetismo artistico di Werewere Liking. È socia del CREA (Centro Ricerche EtnoAntropologiche), vive e lavora a Siena. (contatti: s.tagliacozzo@gmail.com)


Cristina Polverini è nata a Roma nel 1977. Divide la vita tra studio, teatro e sport. La curiosità la spinge a abbandonare gli studi scientifici intrapresi e ad avvicinarsi al mondo della letteratura. Si laurea al Dams di Roma nel 2004. Dall’incontro con mestre Paulinho nasce l’amore per il Brasile – il suo popolo, la sua cultura – e un libro: Capoeira. La danza degli dei (Roma: Castelvecchi, 2005).


Rachele Muzio è nata a Roma e vive a Viterbo. Si è laureata in Dams con una tesi (o meglio un sito) su “Cinema e teatro inglese”. Oggi lavora principalmente presso un piccolo editore e come webmistress per diversi siti oltre a quello di DWF.

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L'articolo in versione integrale scelto per questo numero

Rendere visibile l’invisibile: il corpo politico di Marina Abramovic'
(di Cristina Demaria)

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Il corpo nella performance

In una delle sue prime performance degli anni Settanta Marina Abramovic´ – artista visiva e performer nata a Belgrado nel 1946 da un serbo e una montenegrina, ora residente ad Amsterdam – “esponeva” drammaticamente il suo corpo in una provocazione influenzata dall’allora nascente Body Art e dalla sua sperimentazione su dolore, disgusto e disagio fisico. Si tratta di Rythm 0, “esperimento” compiuto nel 1974 in una galleria di Napoli; al pubblico, che entrava in una stanza vuota al cui centro vi era un tavolo su cui erano posati numerosi oggetti (una piuma, delle spine, una pistola, ecc.), venivano consegnate le istruzioni stilate dall’artista, che così suonavano: “Sul tavolo ci sono 72 oggetti che potete usare su di me come meglio credete. Io mi assumo la totale responsabilità per 6 ore. Alcuni di questi oggetti danno piacere, altri dolore.” (Abramovic´ 2002, p. 16).

E questo è il ricordo di quelle ore di Marina Abramovic´ (ibidem, corsivo mio):

Sul tavolo c’è persino la pistola caricata con una pallottola. Avrei potuto anche essere uccisa. L’idea era: fino a che punto si può essere vulnerabili, fino a che punto può spingersi il pubblico e che cosa può fare con il tuo corpo? È stata una esperienza terrificante. Io ero soltanto una cosa, vestita elegantemente e rivolta verso il pubblico. In principio non è successo niente, ma poi il pubblico si è fatto man mano più aggressivo e ha proiettato su di me tre immagini: quella della Madonna, quella della mamma e quella della prostituta. La cosa più strana è che le donne presenti agivano poco, ma in compenso dicevano agli uomini cosa fare.

La performance, dalle otto di sera alle due del mattino, si trasforma in un lento ma inesorabile susseguirsi di atti di violazione del corpo dell’artista: le vengono tagliati gli abiti e anche la gola, le vengono conficcate spine di rosa nello stomaco, il suo sangue viene leccato, una persona giunge al punto di puntarle la pistola alla tempia, ma un’altra fortunatamente gliela strappa di mano. Al termine delle sei ore però, nel momento in cui l’azione si chiude, il pubblico letteralmente fugge via dalla galleria, incapace di confrontarsi tanto con i ruoli che fino a pochi minuti prima aveva assunto, quanto con le immagini che aveva contribuito a suscitare.

Che cosa accadde in quella performance? Che cosa doveva, poteva accadere? Più in generale, quale è la soggettività agente (agency 1), e anche il senso politico, delle performance di questa artista?

In Rythm 0 il pubblico, da attore del dramma, torna a essere uno spettatore impaurito, il quale non può far altro che scappare da ciò che esso stesso ha contribuito a ri-creare: la memoria della quotidiana offerta “sacrificale” del corpo femminile, la sua oblazione, il suo darsi come dono gratuito che conserva però un aspetto sadico. Quando si concede la possibilità di usare violenza, è difficile che l’altro si sottragga. E la donna, sostiene Angela Vattese (2002, p. 43) commentando Rythm 0, questo lo sa, e dunque “non può proporsi solo come vittima ma deve anche, necessariamente, riconoscere la sua non-innocenza”.

Credo però che, al di là di quello che una donna, forse in questo caso troppo genericamente intesa, “deve” fare o sapere, un evento come Rythm 0 si basi su un’apparentemente semplice, per quanto doppia, inversione di ruoli: l’artista assume un ruolo passivo, mentre il pubblico è chiamato a essere attivo; inoltre l’artista è una donna, che in tal modo mostra e offre la sua vulnerabilità, mettendo in scena – attivamente – la passività che sovente ha contraddistinto la sua posizione femminile.

Questa stessa offerta instaura nuovamente una relazione di dominio, crea uno spazio rituale in cui il corpo offerto viene immediatamente rivestito – per poter entrare con esso in una relazione, per riuscire a sopportarne la vista e la presenza silenziosa – dei consueti, ma altrettanto violenti, stereotipi del femminile, per cui una donna o è la madonna, o è la prostituta, o, meglio ancora, è la mamma. La forza politica della performance di Abramovic´, il suo non essere innocente, penso allora stia proprio nella citazione di questi stessi stereotipi, ripetuti performativamente, dunque dis-locati, resi presenti nella loro sostanziale ambivalenza, nella loro natura di feticcio che si ama/odia. Rythm 0 sfrutta così la sostanziale ambivalenza di ogni processo di stereotipizzazione dell’Altro (cfr. Bhabha 1994), il cui potere si regge su modalità di rappresentazione e su sistemi di credenza contraddittori, e non sulla fissità delle interpretazioni, come invece normalmente si crede.

Se i significati sottesi allo stereotipo del soggetto femminile non fossero ambivalenti e mobili; se, oltre la paura, non ci fosse anche il desiderio, oltre il disprezzo, il piacere, lo stereotipo stesso non potrebbe reggere le trasformazioni e i mutamenti della Storia: l’ambivalenza è ciò che fornisce allo stereotipo quel “di più”, quell’eccesso che gli permette di non essere scalfito dal ragionamento logico o dalla dimostrazione empirica, dal “ma non è vero”. Ciò che è accaduto nella performance di Napoli non è dunque solo il sintomo di un cannibalismo e un sadismo universale (2).

Il fatto che a Napoli, in quell’evento, a essere offerto e messo in scena fosse un corpo di donna, ha prodotto quella performance e non un’altra. E ciò che è accaduto riguarda la costituzione del corpo come oggetto di iscrizione di paure e desideri, ma al tempo stesso come luogo politico di una loro possibile traduzione, della produzione di un eccesso che può trasformare le emozioni, anche solo rendendole evidenti e per questo insopportabili, tanto da volersene subito allontanare.

Rythm 0 non è la prima performance in cui Abramovic´ usa il proprio corpo per verificarne i limiti, manipolandolo e offrendolo alla manipolazione altrui. Un esempio di poco precedente è Rythm 10, performance che così viene descritta dalla stessa artista (Abramovic´, 2002, pp. 14-15):

Si tratta di un gioco russo: avevo con me venti coltelli e due registratori. Conficcavo velocemente il coltello tra un dito e l’altro e tutte le volte che mi tagliavo, sostituivo il coltello e registravo l’operazione sul primo registratore. Dopo essermi tagliata venti volte, riavvolgevo il nastro, riascoltavo i suoni e ripetevo il gioco tagliandomi esattamente negli stessi punti, cercando di fondere passato e presente, compreso l’errore.

Il confronto con il dolore e il sangue, con i confini sia fisici che mentali del corpo è presente inoltre in altre performance attuate in quello stesso periodo, in cui l’artista ingoia davanti al pubblico degli psicofarmaci, in cui si ferisce o in cui sviene perché circondata da una stella di fuoco, rischiando di morire. Sono gli stessi anni in cui Vito Acconci si masturba di fronte al pubblico di una galleria di New York, nascosto sotto un telo, e in cui Gina Pane si incide il corpo con delle lamette; in cui la Body Art sembra, in altre parole, tornare a proporre un’identità tra etica ed estetica, tra arte e vita.

Come scriveva Lea Vergine (1974, ora in Vergine 2000, p. 12), in un testo poi divenuto un classico sull’utilizzo del corpo come linguaggio nelle performance degli anni Settanta:

Quest’uso contemporaneo del corpo però non è solo “espressionismo renaissance” o revival, ma un processo critico se pur dettato, in molti casi, da un sentimento di nostalgia (estetizzante) di un rapporto con il reale di cui si è incapaci. In questi fenomeni bisogna vedere altrettanti documenti di uno stile di esistere che resta anche al di fuori dell’arte.

Le performance di quegli anni sono allora non tanto l’espressione di un bisogno di conoscenza, quanto il tentativo di affrontare, mettere alla prova, e quindi conoscere il bisogno stesso, attraverso la messa in gioco radicale del proprio corpo e della propria vita: “La testimonianza di sé, della propria vita, l’intera sfera del ‘privato’ vengono impiegate come materiale di repertorio. Tutto diventa recuperabile: una qualunque azione di un qualsiasi momento di una qualunque giornata” (Vergine 2000, p. 15).

L’artista si pone come suo stesso oggetto, inaugurando una specie di “teologia negativa”, un’esperienza ascetica che è l’esasperazione di un atteggiamento che affonda le proprie radici nei movimenti dell’avanguardia storica (Duchamp), e delle nuove avanguardie del dopo guerra (Cage e Fluxus), le quali avevano già profondamente cambiato non solo i modi di comprensione, ma anche di produzione e di percezione del lavoro artistico. Le performance di quegli anni verranno poi definite arte de-materializzata o post-oggettuale, in cui l’interesse per il corpo, il movimento e lo spazio vanno di pari passo con la demistificazione dell’atto artistico e con l’enfasi sulla processualità delle operazioni creative.

Etichette a parte, il punto è che le performance degli anni Settanta, e quelle di Marina Abramovic´ in particolare, si pongono, nel complesso, come percorsi attraverso cui affrontare i limiti e la paura, in cui, come ricorda la stessa Abramovic´, “l’elemento del pericolo, il confronto con il dolore e l’esaurimento delle forze fisiche erano molto importanti, perché questi sono gli stati della ‘presenza’ totale nel proprio corpo” (Abramovic´ in Denegri 1998, p. 11). La perlustrazione del corpo, la sua “messa a nudo” sono così modi per “tornare al mondo” attraverso esperienze che sicuramente ricordano anche il teatro della crudeltà di Artaud.

Lo spettacolo, attraverso una coscienza che viene dal corpo, può così diventare luogo di una trasformazione dell’essere donna. Gli anni in cui Abramovic´ inizia la sua attività artistica sono peraltro i primi i cui le donne iniziano a far parte del panorama artistico, e dunque a riflettere sulle forme della loro possibile auto-rappresentazione. E non è certo un caso che la maggior parte delle artiste centrino il proprio lavoro sulla messa in scena di un corpo che la cultura patriarcale a lungo ha privato della voce, che ha enfatizzato attraverso pratiche di alterazione, che ha sempre regolato, e sovente violato. Avere un corpo, e solitamente essere ridotte ad esso, per le donne ha significato avere la propria area di estensione contratta e ridotta alla sfera della propria immediata presenza fisica. Soprattutto, ha significato essere rappresentate sempre da altri, e attraverso immagini che per lo più hanno cercato di confermare l’identificazione della donna con il suo corpo, il suo ‘istinto’, etc.

Questa è una condizione che sempre riguarda chi non ha potere (cfr. Scarry 1985, p. 206), dal momento che il potere ha bisogno di controllare non solo ciò che è dicibile, ma anche ciò che è visibile, di controllare cioè le rappresentazioni. Se infatti pensiamo alle forme di rappresentazione degli esseri onnipotenti, quali le divinità, ci accorgiamo di come non avere un corpo significhi che la possibile estensione nel mondo non ha limiti: dio è ovunque, in ogni cosa. Rappresentare il proprio corpo, sottraendolo alla fissità degli stereotipi, oppure mettendo in scena i suoi stessi limiti, può allora indicare l’acquisizione di una visibilità che non indica però una volontà di potere, quanto la possibilità di un desiderio (politico) di trasformazione del sé e dell’altro, entro rituali che possono mutare un’esperienza individuale in una collettiva.

La performance, e quelle descritte in particolare, mettono in scena il corpo come luogo di ancoraggio, ma anche di circolazione e di trasformazione del senso, come sistema di travasi, ferite, trasbordi, istanza permeabile in cui l’interno e l’esterno possono continuamente ridefinirsi (cfr. Marsciani 1999). In questo modo la performance impone una revisione, una parziale e momentanea interruzione nel meccanismo apparentemente liscio che unisce corpo e io, corpo e linguaggio, entro un rapporto che è una piega, una curvatura del mondo, e non una relazione tra istanze ontologicamente determinate e distinte: uomo e donna, sostanza e forma, materia e spirito.

Vorrei però tornare al particolare tipo di trasformazione suggerita da Rythm 0 come dalle altre performance citate, che parte dalla (im)possibile messa in scena della sofferenza e del dolore, e dal riconoscimento della relazione esistente tra dolore fisico e processi immaginativi: “Nel complesso tessuto degli stati somatici e percettivi il dolore fisico rappresenta un’eccezione, essendo l’unico stato a non possedere un oggetto” (Scarry 1985, pp. 161- 162). L’ascolto e il tatto riguardano infatti oggetti che vanno al di là dei limiti fisici del corpo; il desiderio è sempre desiderio di qualcosa, per quanto indefinito, mentre il dolore non è di o per qualcosa.

Ciò rende il dolore difficilmente esprimibile attraverso il linguaggio verbale, dal momento che “non avendo oggetto, non può essere facilmente oggettivato in una forma qualsiasi” (ibidem). Ma è proprio questa particolarità ad attivare il processo di immaginazione, di traduzione e di conseguente sublimazione del dolore, attraverso la creazione di un supplemento di mondo. Se da un lato il dolore è uno stato intenzionale privo però di un oggetto, dall’altro l’immaginazione implica un oggetto, senza che vi sia uno stato intenzionale esperibile. Il dolore può così divenire lo stato intenzionale dell’immaginazione, e l’immaginazione l’oggetto intenzionale del dolore, che non è più solo distruttivo, ma anche creativo. Nella sua (im)possibile rappresentazione viene a espressione la forza di una soggettività agente, l’energia di cui parla Abramovic´, il farsi e il disfarsi del mondo.

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Il corpo della performance

Ma non sempre le performance di Marina Abramovic´ hanno messo in scena il dolore e la paura. Nel 1975 incontra ad Amsterdam Ulay, artista tedesco con cui per 12 anni condivide vita e lavoro, e con cui firma numerose altre performance in cui l’energia femminile, per utilizzare un termine frequentemente evocato dall’artista, viene espressa accanto a quella maschile.

Nella fase successiva a Rythm 0, e in conseguenza all’incontro con Ulay, quel che Abramovic´ mette alla prova in performance minimali è la relazione tra due individui, lo spazio e il tempo che le sono peculiari, gli urti e i conflitti, gli sguardi e gli scambi, materiali e immateriali, che la costituiscono. Un esempio è Relation in Time, evento realizzato a Bologna nel 1977, in cui Abramovic´ e Ulay rimangono seduti, legati insieme per i capelli, per sedici ore, senza pubblico a eccezione di un fotografo che scatta un’immagine ogni ora. Al termine delle sedici ore, nello spazio in cui i due siedono immobili e silenziosi viene finalmente fatto entrare il pubblico, il quale dovrebbe permettere ai due artisti di “continuare”, grazie all’energia della sua presenza e del suo sguardo. Gli spettatori si trovano così ad assistere a un processo “diluito”, in cui “accadono diverse cose, lo spazio si modifica e si carica di energia con la quale il pubblico si confronta” (Abramovic´ in Denegri, 1998, p. 20).

Lo stesso rapporto tra Ulay e Abramovic´ si conclude con una performance, The lovers/The Great Wall del 1988, in cui ciascuno dei due percorre la muraglia cinese, Ulay da ovest e Abramovic´ da est, per incontrarsi dopo novanta giorni e decidere di separarsi, entro un rituale che perciò unisce l’abbandono al mutuo riconoscimento.

Il lavoro di Abramovic´, che si è recentemente autodefinita la “nonna delle performance” (cfr. De Cecco e Romano 2000), viene oggi giudicato particolarmente significativo per la presenza, sin dagli inizi, di temi che decenni più tardi si sono ripresentati come topoi rilevanti per tutto il panorama artistico, quali la presenza femminile e la questione dell’identità (in questo caso serba). Abramovic´ però rifiuta di far rientrare il suo lavoro in tali cornici onnicomprensive, considerando l’esplorazione del sé e la sua messa in scena, temi che oggi sembrano accomunare “l’arte delle donne”, come il punto di partenza di qualsiasi lavoro artistico, in cui l’artista è colei che, partendo da sé, può decidere di accompagnare qualsiasi essere umano nel suo proprio viaggio di scoperta della propria soggettività.

È forse allora il confine, lo spazio in mezzo, l’idea stessa di attraversamento e quindi di costante traduzione e verifica dei limiti come delle possibilità di trasformazione della propria e dell’altrui soggettività, l’elemento costante del lavoro di Abramovic´; lavoro che l’ha condotta, negli anni successivi all’interruzione del legame con Ulay, a viaggiare in Tibet, a vivere con gli aborigeni australiani e con i minatori brasiliani, ad apprendere riti sufi, continuando così l’esplorazione dei confini percettivi, fisici e mentali del proprio e dell’altrui corpo.

In ognuno di questi esperimenti emerge il tentativo di creare qualcosa di visibile per l’invisibile, grazie alla scrittura del corpo entro il rituale della performance. Scrivere il corpo non significa allora e semplicemente farne un oggetto di iscrizione, bensì di traduzione e tras-duzione; nel caso particolare delle performance di Abramovic´, il veicolo di una relazione tra immagini e persone capace di rammentarci come ciascun soggetto sia sempre in formazione, sia ripetutamente prodotto, continuamente per-formato (3).

Quel che mi interessa considerare, a questo punto, è proprio la natura di tale modificazione, di questa “energia” che scorre e si trasforma, alla luce inoltre delle mutazioni che la performance in generale, e quelle di Abramovic´ in particolare, hanno subito in questi ultimi trent’anni. Rispetto agli anni Settanta, in cui la performance è una manifestazione provocatoria ed estrema che si palesa attraverso il corpo dell’artista; “quasi carne messianica alla quale si può delegare la sofferenza e la salvezza” (Vattese 2002, p. 46), il lavoro di Abramovic´, passando attraverso le perfomance minimali con Ulay, è divenuto nel tempo più mediato, grazie sia all’uso del video, che in alcuni casi si frappone tra l’azione e il momento della sua presentazione, sia di oggetti, pietre, amuleti, minerali. Ma l’utilizzo del video, o di quelli che Abramovic´ definisce “oggetti transitori” attraverso cui far fluire l’energia, a differenza di quanto accade con molti altri artisti contemporanei non esclude mai del tutto la presenza dell’artista, e quindi una componente rituale e performativa.

I lavori di Marina Abramovic´sono infatti tutt’ora caratterizzati dal loro avvenire per lo più in tempo reale, dalla volontà cioè di non manipolare il tempo, in modo da mantenere la forza di una presenza, di una realtà dell’esperienza che ci viene restituita attraverso la durata dell’azione e della sua percezione. Un esempio è la performance-installazione Balkan Baroque, che vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997: in quel caso Marina Abramovic´ rimase seduta per tre giorni di seguito su di un enorme e nauseante mucchio di ossa di animali, che continuava senza sosta a lavare e a strofinare con un disinfettante, in modo da toglier loro gli ultimi resti di carne. La stanza conteneva anche tre grandi recipienti pieni d’acqua, e tre schermi la cui disposizione ricordava quella delle icone religiose nelle chiese ortodosse (due ai lati e una al centro, sopra l’altare).

Nei due schermi posti ai lati dell’artista venivano proiettate immagini dei suoi genitori, mentre in quello centrale vi era l’artista che, vestita da scienziata, raccontava la creazione dei “topi-lupo” dei Balcani:

Occorre catturare dai trenta ai quaranta topi, tutti maschi appartenenti alla stessa famiglia, perché i maschi non ucciderebbero mai uno del loro stesso clan. Quindi bisogna rinchiuderli in una gabbia e dare loro soltanto acqua da bere. Il fatto è che i topi hanno denti che continuano sempre a crescere, e se non mangiano vengono soffocati dai loro stessi denti. I topi catturati sono tenuti in vita soltanto con acqua. Man mano che si indeboliscono, vengono mangiati dagli altri finché ne sopravvive soltanto uno: il più forte, il leader del gruppo. Il calcolo dei tempi è fondamentale. Il cacciatore osserva il topo, gli dà acqua da bere mentre i denti continuano a crescere. Mezz’ora prima che il topo soffochi, il cacciatore apre la gabbia, estrae il coltello, gli cava gli occhi dalle orbite e infine lo lascia libero. Ora l’animale è cieco, furioso, in preda al panico: si trova faccia a faccia con la morte. Corre verso la tana della sua famiglia e uccide tutti quelli che trova sul proprio cammino, finché non incontra un altro topo, più forte e più grosso di lui, che lo uccide. (Abramovic´ 2002, p. 26)

Questa storia terribile, che veniva riportata con estrema freddezza e indifferenza, si alternava ad alcune immagini in cui Abramovic´ si mostrava invece nelle vesti di una “tipica” cantante d’osteria dei Balcani, volgare e sensuale al tempo stesso, il cui sguardo si rivolgeva provocatoriamente allo spettatore. È scontato sottolineare come quest’opera richiami la crudeltà e la follia della guerra che ha lacerato la ex Jugoslavia, il bisogno di pulizia e di purificazione, di disinfezione della carne e dai topi impazziti, a cui vengono contrapposte immagini serene proprie di una memoria individuale (i genitori), e immagini sensuali (la danza provocatoria e provocante dell’artista), che tornano invece a riproporre una certa costruzione del corpo femminile e della sua “offerta”.

Il barocco che accompagna i Balcani è dunque segno della ricchezza di stati contradditori e opposti che caratterizzano quell’area geografica e la sua identità. Dopo questa performance, Abramovic´ continua a mettere in scena il proprio bisogno di purificazione, come nella “istallazione vivente” 3 rms, ocean view (titolo che ricorda le inserzioni in cui si pubblicizza la vendita o l’affitto di appartamenti), avvenuta a New York nel novembre del 2002, in una galleria di Chelsea. In questo spazio vengono costruite, su una piattaforma sollevata dal terreno a cui si accede con una scala che al posto dei pioli mostra dei coltelli da macellaio, tre “stanze” a vista: nella prima vi è un semplice letto di legno, dell’acqua in una bacinella e un metronomo che scandisce il tempo; nella seconda un water e una doccia, che vengono utilizzati tre volte al giorno di fronte al pubblico; nella terza, che sta in mezzo alle prime due, vi è solo un tavolo spoglio e una sedia, il cui poggia testa è fatto di pietra bianca.

Abramovic´ passa dodici giorni in questo spazio, in silenzio totale, digiunando e bevendo solo acqua, senza aver nulla da leggere o su cui poter scrivere, alla ricerca di una “trasformazione del proprio campo energetico”. Alla fine, come fece notare un critico, “la sua carne si cibava dei muscoli, proprio come i muscoli si cibavano della carne quando, nei lavori precedenti, si incideva e si tagliava la pelle” (4).

Come Abramovic´ ha più volte ripetuto:

L’aspetto decisivo della performance è il rapporto diretto con il pubblico, la trasmissione di energia fra pubblico e performer. Che cos’è una performance? È una sorta di costruzione fisica e mentale nella quale l’artista si pone di fronte al pubblico. Non è una pièce teatrale, non è qualcosa che si impara e si recita, calandosi nel ruolo di qualcun altro. La performance è una trasmissione diretta di energia. (Abramovic´ in Denegri 1998, p. 13)

Nelle performance non esistono prove, non ci sono repliche e nemmeno una conclusione prestabilita. La performance è per antonomasia un’opera aperta in cui si dispone di una partitura, di una ricetta che deve poi essere realizzata, e in cui per l’appunto si crea dell’energia. Ma che cosa è l’energia? Anche la critica d’arte, nel tentare di descrivere tali performance, parla di passaggio da un flusso di energia psichica a un flusso cerebrale, tra materia e ideazione, tra corpo e spirito: sarebbe questo spostamento che rende la performance una pratica particolare di trasformazione e di contatto tra un’artista e un pubblico.

Ma per cercare di comprendere qualcosa di più, il modo cioè in cui si trasformano le soggettività e in cui eventualmente si decostruiscono gli stereotipi dell’identità femminile e dell’identità culturale entro performance come quelle descritte, forse è utile collocare la performance in quella zona di “disordine semantico”, ai confini dell’ordine sociale, in cui Lévi-Strauss situava le pratiche di magia sciamaniche e divinatorie delle cosiddette “culture primitive”: zona d’indeterminazione, dove i significati sono solo apparentemente simbolici e fissi, ma dove in realtà si fa riferimento a “bizzarrie semantiche che sembrano appartenere a tutti i codici (mana) e che significano tutto o niente” (Gill 1982, p. 1099), e che inoltre sviluppano connotazioni “energetiche”.

Tale “significante fluttuante” (Levi Strauss 1950) necessita ovviamente di un supporto materiale che consenta di manipolarlo, in questo caso il corpo dell’artista, la sua voce e le immagini proiettate. Che cosa poi davvero accada in una performance è qualcosa che solo singolarmente possiamo, a posteriori, raccontare, e che può dunque variare di volta in volta, dal momento che il testo stesso della performance esiste esclusivamente nel suo farsi. Ciò di cui qui si può parlare è il modo in cui alcune operazioni artistiche tentano di collocare la soggettività, e in particolare quella femminile, in qualcosa che cerca di sfuggire a una specifica ideologia del visibile, entro un tipo di pratica testuale in cui il soggetto non è immediatamente “marcato”.

D’altro canto, come fa notare Peggy Pehelan (1993), la relazione tra sé e altro, tra colui che guarda e colui che è guardato, è sempre una relazione mar-cata, e cioè asimmetrica: ed è “una relazione violenta perché tocca la natura paradossale del desiderio; perché riguarda un incontro da sempre già squilibrato e asimmetrico, in cui però è racchiusa la speranza della reciprocità e dell’uguaglianza; e il fallimento di questa speranza produce violenza e agressività” (Pehelan 1993, p. 200, tr. mia). Ma se si accetta che ogni spettacolo, ogni rappresentazione del “reale” contiene sempre un eccesso, un supplemento che può rimettere in gioco tale incontro e le sue implicazioni, la performance in quanto evento può divenire lo spazio per la produzione, e anche l’esperienza, della paura e del suo superamento, del dolore ma anche, come si diceva, della creatività.

La trasduzione che allora le performance possono operare dipende dalle trasformazioni che possono – o meno – scaturire da eventi rituali che, in quanto tali, non sono mai definitivamente riproducibili (che non significa non ripetibili), e che possono dunque rappresentare il modello per un’altra economia della rappresentazione del corpo come dell’identità femminile, in cui la riproduzione dell’altro come del medesimo non è, per lo meno, mai del tutto certa.

In un presente in cui l’incontro tra sé e altro sembra sempre più intriso di profondo romanticismo e al tempo stesso di grande violenza, lo spettacolo, l’offerta e il sacrificio del corpo femminile che avviene nelle performance di Marina Abramovic´ può allora aiutarci a ripensare un’ideologia del visibile e una politica degli sguardi che riguarda la differenza sessuale nel momento in cui qualsiasi rappresentazione culturale, qualsiasi meccanismo del guardare e dell’essere guardata, contiene il tentativo di stabilizzare le differenze e di reprimere il sessuale.

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Bibliografia

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Note


1 Il termine inglese agency non è di facile traduzione. In alcuni casi viene usato “agentività” che però, essendo un neologismo molto poco utilizzato, non riesce a restituire davvero il senso del termine originale; in altri casi, ad esempio nella traduzione italiana di Scarry 1985, che cito più avanti, si usa “forza”, parola più incisiva di agentività, che però perde parte del significato politico che molta riflessione delle donne assegna al termine agency; “soggettività agente” è una proposta della curatrice di questo numero, Paola Bono. torna al testo

2 Come ancora sembrano suggerire Vattese 2002 e altri critici dei lavori di Marina Abramovic´ secondo cui ciò che è accaduto a Napoli non ha nulla a che fare con il corpo femminile. torna al testo

3 Per Butler 1993 è proprio la possibilità di questa ripetizione che permette la proliferazione di effetti che minano le fondamenta stesse del processo di normalizzazione. Qui sta la possibilità di una risignificazione, nello scarto temporale che separa gli usi, in cui si produce la possibilità di un’inversione. Un soggetto, in altri termini, rimane tale solo attraverso la reiterazione o la riarticolazione del suo essere un soggetto, allo stesso modo in cui funziona lo stereotipo, che per esistere ha bisogno di essere raccontato e ripetuto. torna al testo

4 Il commento è di John Haber, ed è tratto da un articolo disponibile in rete al sito http://haberarts.com/marina.htm
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